SAW: L’ENIGMISTA – UNA RETROSPETTIVA SULLA SAGA

 

di Alessandro Sivieri

Specifichiamolo subito, il gioco dell’Enigmista non è ancora finito: un ottavo episodio, chiamato Saw: Legacy, è programmato dalla Lionsgate per il 2017. Eppure dall’ultimo capitolo, diretto da Kevin Greutert (già regista del sesto), sono passati un po’ di anni, e questo ci fornisce un alibi per fare un breve ripasso su un ciclo che possiamo considerare completo. Infatti non è ancora confermato il ritorno di Tobin Bell nelle vesti dell’iconico antagonista. Torniamo alle origini di una saga dalla natura low-budget, concepita da James Wan, che ha lanciato il cosiddetto genere del torture porn nel circuito mainstream, insieme a Hostel di Eli Roth.

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La situazione di partenza è sempre la medesima: perfetti sconosciuti che si ritrovano, da soli o in compagnia, prigionieri di letali trappole che in breve tempo li uccideranno nel modo più brutale e disgustoso possibile. Le possibilità si sprecano e nel corso di sette film ne abbiamo viste davvero di ogni tipo: mandibole scardinate, gente dissanguata, altra gente congelata o bruciata viva, mutilata, affogata in un frullato di maiali putrefatti, gettata in una vasca di siringhe, aperta in due. Tutto mostrato nei particolari per impressionare lo spettatore, che non sa se inorridire o sfogare il proprio lato sadico. Ma in questo gioco sanguinoso, come recita l’inquietante marionetta che fa da megafono al killer, c’è sempre una via d’uscita: per salvarsi la vita, le vittime sono costrette a farsi del male, a uccidere qualcun altro o a rinunciare a qualcosa di caro; situazioni in cui gli astuti ricatti del Joker di Heath Ledger sembrano scherzi di compleanno.

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Il mastermind che si cela dietro alle trappole è Jigsaw, pseudonimo di un uomo di mezza età che è destinato a morire per via del cancro e che vuole dare una lezione a tutti coloro che, secondo il suo giudizio, sprecano il prezioso dono della vita. Ecco che i protagonisti scoprono di aver già incontrato Jigsaw, o di aver avuto in qualche modo a che fare con lui e con le altre vittime del “gioco”. Nella disperazione vengono a galla le ipocrisie e i vizi delle persone coinvolte, gli scheletri nell’armadio che il killer vuole mettere a nudo. Alcuni muoino sotto le torture, altri si salvano perdendo qualcosa a cui tengono, altri ancora subiscono una trasformazione psicologica e diventano discepoli del loro ex-carnefice, vedendo in Jigsaw una guida spirituale. A scandire i flashback di personaggi usa e getta c’è quello che il pubblico desidera: sangue, frattaglie, organi spappolati, ossa frantumate. Episodio dopo episodio vengono mostrate trappole sempre più perverse e dolorose, mentre le motivazioni di Jigsaw diventano via via più pretestuose, inconsistenti. Pur di avere carne da cannone sempre fresca, la produzione fa in modo che il killer ce l’abbia letteralmente con mezzo mondo.

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Una saga dalla qualità altalenante che si è ritagliata il proprio spazio e che va trattata per ciò che è realmente: una spassosa carneficina per stomaci forti. Certo, abbiamo i retroscena e il plot twist finale che è diventato un marchio di fabbrica, dove tutto acquista un senso, ma una cosa del genere, insieme alle torture, si è già vista in Seven. Dubitiamo che Jigsaw sarebbe mai esistito senza l’inquietante e perfezionista John Doe interpretato da Kevin Spacey.

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