STARGATE – PIRAMIDI A MATRIOSKA

di Alessandro Sivieri

Sarà per l’uscita di Assassin’s Creed: Origins o per la delusione de La Mummia, ma mi è venuta voglia di Egitto. Facendo un balzo ancora più indietro rispetto al nostalgico Brendan Fraser, ho approcciato un caposaldo fantascientifico degli anni ’90, una delle opere più convincenti dello spaccatutto Roland Emmerich, che in generale considero un Michael Bay meno scemo. Parliamo dello stesso regista di Independence Day e di quella versione tirannosauresca di Godzilla che piace tanto al mio collega Matteo Berta. Questo giocattolone ha piantato le radici nella cultura popolare e ha generato la serie Stargate SG-1, considerevolmente longeva e con un fandom paragonabile a quello di Battlestar Galactica e Babylon 5. Secondo le ultime indiscrezioni un reboot era all’orizzonte ma il progetto è naufragato, quindi potremo riflettere sull’originale ancora per molto tempo: è un buon film o il mio alter ego seienne non mi permette di parlarne male?

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L’impianto narrativo abbraccia una teoria che ancora oggi va fortissimo tra i complottisti: quella che attribuisce ad artefatti antichi una natura aliena o tecnologicamente avanzata rispetto all’epoca. In questo caso parliamo dello Stargate, un portale per altri mondi custodito dal governo americano. Peccato che sia utilizzabile solamente inanellando una precisa sequenza di simboli, e per risolvere il mistero viene chiamato Daniel Jackson (James Spader), tipico studioso bonaccione e un po’ imbranato che alla fine si rivelerà eroico. Trovato il prefisso galattico e attivato il tunnel, viene assemblata una spedizione sotto il comando del colonnello O’Neil, un Kurt Russell fuggito da New York e da Chinatown con un’acconciatura alla Street Fighter. Ha perso il figlio per colpa di una pistola incustodita (mea culpa della società americana?) ed è tosto e cinico, controbilanciando il topo di biblioteca Jackson. Dopo una sequenza di teletrasporto che ricorda uno screen saver, il gruppo approda su un pianeta pieno di rovine e abitato da una civiltà pseudo-egiziana.

I militari fraternizzano con i primitivi grazie a delle barrette al cioccolato, in particolare con un gruppo di giovani, ed è proprio per questo aspetto naïf, per le inquadrature panoramiche e per l’impianto sonoro che si nota un certo tocco spielberghiano. Non manca nemmeno un inserto monster, con un bestione da soma simile a uno yak. I nostri prodi soldati trascorrono la notte al villaggio dei pastori, accolti come se fossero divinità, e iniziano i siparietti sull’incontro tra culture alla Balla coi lupi. Il professor Jackson è così impedito da rifiutare una notte di passione con una ragazza offertagli dal capo tribù. Naturalmente si innamorerà della fanciulla, fin troppo curata esteticamente per una nomade e con il volto di Mili Avital. Perché sapete, questi yankee sono proprio dei bonaccioni.

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Esaurite le doverose presentazioni inizia la parte più interessante: nella notte un’astronave a forma di piramide atterra sulla piramide che contiene lo Stargate, come in una matrioska, e ne escono degli alieni in armature tamarrissime che massacrano la retroguardia terrestre. Incontriamo finalmente il tiranno extraterrestre Ra, che ha schiavizzato gli abitanti del pianeta per ottenere risorse e qualche corpo giovane in cui reincarnarsi ogni tanto. Ha il volto femmineo e poco intimidatorio di Jaye Davidson, roba che il Serse di 300 in confronto è un tagliaboschi canadese. Fortunatamente i suoi scagnozzi travestiti da dèi egizi sono molto più fighi e daranno del filo da torcere ai nostri eroi, che lotteranno per liberare i villici dall’oppressione. C’è anche un ordigno nucleare da disinnescare, pensato dal governo come extrema ratio per distruggere lo Stargate in caso di minacce alla Terra.

Lo scontro finale è bello fracassone, con navette che anticipano il look di Independence Day, straccioni che sparano in aria con i mitra e Russell che prende a mazzate un bimbominkia mascherato da Anubi. Epilogo con esplosione in orbita, frase testosteronica anni ’80 e i giovani pastori che hanno imparato il saluto militare. O’Neil ha superato il lutto, Jackson è meno imbranato e gli americani hanno esportato la democrazia. Ogni aspetto di questa produzione rispecchia un certo modo di fare cinema, la spacconeria degli States che non verrà mai abbandonata ma tutt’al più imitata, infatti Emmerich ha origini teutoniche. Eppure dietro la scrittura elementare e le soluzioni narrative prevedibili si percepisce un’anima, un’ispirazione visiva che spesso viene a mancare nei kolossal odierni. I personaggi, pur se caricaturali, vengono sapientemente gestiti e anche le battute più dozzinali sono contestualizzate. Vent’anni dopo vedo mille difetti e gli ingredienti base di un popcorn movie, ma anche il genuino desiderio di allargare i confini dell’immaginario filmico. Continuo a sognare Kurt  Russell che spunta dallo Stargate e si avventa su Roberto Giacobbo.

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