X-MEN: DARK PHOENIX – Un franchise in cenere

Il canto strozzato della fenice prima del reboot disneyano.

di Alessandro Sivieri

Un decennio prima della Disney, era stata la Fox a puntare su un cavallo vincente, ovvero trasporre i fumetti al cinema senza considerarli roba per disagiati brufolosi che vivono nello scantinato della madre. Il risultato fu la saga di X-Men, che per lungo tempo ha potuto contare su tre solidi pilastri: la nascente vena supereroistica, l’impronta creativa di Bryan Singer e il carisma di Hugh Jackman nei panni di Wolverine. Questi elementi sono gradualmente venuti meno. In seguito a un divisivo Conflitto finale di Brett Ratner, il franchise si è diramato in più filoni: gli stand-alone con Jackman (dominio assoluto di Logan), le scanzonate avventure di Deadpool e un riavvio della storia dei mutanti, con attori emergenti negli iconici ruoli. Dopo l’uscita Giorni di un futuro passato, dove due generazioni di interpreti si incontrano, i film degli X-Men sono precipitati a livello qualitativo, prima con Apocalypse e ora con questo Dark Phoenix. Raccontando senza alcun pathos la medesima trama del terzo capitolo, il regista e sceneggiatore Simon Kinberg ci presenta il tramonto di una squadra di millennials con poco da dire.

Sorprendentemente, Kinberg è all’esordio come regista, ma aveva già sceneggiato la pellicola di Ratner, il recente Apocalypse e quel plateale disastro noto come Fantastic Four. Con il pieno controllo del progetto e la volontà di raccontare in modo inedito l’ascesa della Fenice, è riuscito a creare un episodio svogliato nel ritmo, nella recitazione, nella ricercatezza visiva e nella scrittura. Eppure le tensioni iniziali tra i membri del gruppo fornivano un buon antefatto su cui costruire: i mutanti non vengono più visti come mostri dai mass media e gli X-Men sono degli eroi. Charles Xavier (James McAvoy) riceve con sommo piacere le lusinghe dell’opinione pubblica, comparendo alle serate di gala e sulle prime pagine dei giornali. Effettivamente, come gli rimprovera Raven (Jennifer Lawrence), il caro professore pecca di narcisismo e sembra non preoccuparsi dei rischi affrontati dalla squadra. Inoltre ha alterato i ricordi della giovane Jean Grey (Sophie Turner) per nascondere la verità sulla sua infanzia.

Questo lato oscuro di Xavier, egoista e manipolatore, viene relegato a un paio di dialoghi risolutivi per focalizzarsi sul canovaccio dell’enfant prodige che perde il controllo. La squadra si avventura per la prima volta nello Spazio per salvare uno shuttle della NASA da una massa energetica sconosciuta. Durante l’operazione Jean mette a rischio la propria vita e assorbe la succitata forza cosmica. Tutti la danno per spacciata, ma la ragazza si risveglia in breve tempo, scoprendosi diversa. I suoi poteri sono aumentati a dismisura, al punto da sorpassare Xavier, ma la sua personalità sta cambiando. Rabbia e paura emergono dalla sua infanzia infelice, amplificate dalla contaminazione oscura che la trasforma in una Fenice nera, la mutante più pericolosa della Terra.

Apprendiamo poi che i veri villain, intenzionati a manipolare Jean, sono degli invasori alieni chiamati D’Bari. Con poteri sovrumani poco definiti, uno sguardo da cernia e la capacità di correre come degli idioti, questi extraterrestri vogliono colonizzare il nostro mondo e rappresentano un espediente narrativo poco ispirato. Simili agli infetti centometristi delle ultime pellicole zombie, fanno rimpiangere Oscar Isaac vestito da cattivo dei Power Rangers. Possono assumere sembianze umane, cosa che li avvicina agli Skrull dei poveri. Infine sono capeggiati da una Jessica Chastain sbiancata che, per necessità scritturali, fa a gara con la Turner per piattezza.

Torniamo proprio alla giovane Sansa di Game of Thrones: non dispone di un adeguato arsenale espressivo per mettere in scena i travagli interiori di Jean Grey. La protagonista ha una perenne aria trasognata, tranne quando scende una lacrimuccia, ma vengono trascurati i suoi lati vendicativi, rabbiosi e istintivi. Gli effetti speciali non bastano a trasmettere la sua aura semi-divina e il cast di contorno non aiuta di certo. Il personaggio della Lawrence viene estromesso senza tanti complimenti, giusto il tempo di tirare una frecciatina girl power a McAvoy. Comprimari come Quicksilver (Evan Peters) vengono tolti dai giochi in fretta e furia poiché ingestibili nell’economia del racconto. Manca quella scintilla di imprevedibilità di Conflitto finale, dove le morti erano davvero inattese e cariche di sentimento. La tematica dell’intolleranza, da sempre un punto cardine della saga, è evocata solo a parole: un attimo prima gli X-Men sono eroi, ma basta una schermaglia con due auto della polizia ribaltate per far tornare l’intera società mutante una minaccia, con campi di contenimento già approntati e burocrati che “bloccano il WhatsApp” a Xavier.

A tenere parzialmente in piedi la baracca è il Magneto di Michael Fassbender. L’attore teutonico riesce a rendere sfaccettato il suo antieroe con la sola fisicità, non potendo contare su dialoghi al top. Quando Magneto osserva il suo ex-amico Xavier, tenta di salvare un elicottero con l’imposizione delle mani o combatte contro alieni invasati, risulta il più credibile del gruppo. Non a caso brilla per scioltezza nella scena meglio riuscita del film, ovvero l’assalto al treno. Qui per qualche istante si percepisce una buona coreografia, che mostra le peculiarità di ogni X-Men mentre collabora con i compagni. Peccato che i momenti privi di mordente vadano per la maggiore, da uno scontro finale anticlimatico a un’interazione simbolica tra Jean e Xavier su una scalinata, che poteva significare molto ma strappa al massimo una risatina. Il mentore cervelluto appesantisce ulteriormente le sequenze action, poiché la sedia a rotelle lo costringe a farsi continuamente spostare da altri e la sua telepatia non è impiegata con dinamicità.

Il sospirato epilogo si avvia celermente al dimenticatoio, accompagnato dall’intera storia. L’assenza di un punto di vista direttivo e la mancanza di coraggio nell’affrontare determinati temi sono gli ingredienti di un prodotto insipido, affine alle logiche di un teen drama con gente immobile che sposta oggetti in CGI. Sorseggiato fino in fondo l’amaro calice, possiamo mettere un epitaffio sul ventennio mutante e sperare che la Casa di Topolino non combini qualcosa di peggio. Kinberg ha esibito il suo superpotere, che consiste nel tagliare le potenzialità con l’accetta.

3 commenti Aggiungi il tuo

  1. apheniti ha detto:

    Quindi non ci resta che seppellire il franchise contro dei nemici davvero temibili… “Con poteri sovrumani poco definiti, uno sguardo da cernia e la capacità di correre come degli idioti”.
    Speriamo in Topolino.

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