MIDSOMMAR – Sono Pazzi Questi Svedesi

L’incubo di mezza estate di Ari Aster.

di Alessandro Sivieri

*ATTENZIONE: contiene alcuni SPOILER sulla pellicola*

Se il vostro stereotipo delle popolazioni scandinave si ferma allo spensierato montatore di mobili Ikea, una gita ad Hälsingland vi farà tornare sui vostri passi. Dopo il più tradizionale Hereditary, il regista newyorkese Ari Aster ci catapulta nel cuore della Svezia, in occasione di un festival di mezza estate che nasconde bizzarre usanze e rituali sanguinari. Un’opera che, nonostante una campagna marketing fuorviante (incluso l’adattamento italiano che tira in ballo “Il villaggio dei dannati”), si allontana dai canoni dell’horror per diventare uno studio antropologico perverso. Oltre a sfoggiare uno stile incisivo, Midsommar si dimostra un prodotto di fruizione non proprio immediata, complice la durata e un ritmo costantemente dilatato che non si tradisce mai, puntando più a ipnotizzare che a esaltare. Preparate gli zaini e partiamo alla volta di questo The Village nordeuropeo.

Lo spettatore affamato di spaventi facili o con un certo deficit di attenzione viene messo a dura prova dalla gestione dei tempi, ma deve anche arrangiarsi di fronte alle molteplici chiavi di lettura: Mezzaestate non è un mero saggio sulla superstizione e l’interculturalità, è anche un racconto sul tradimento e la metabolizzazione del lutto. Il prologo, folgorante, si limita a suggerire visivamente gli eventi e gioca sugli accostamenti sonori (canti e urla contro clacson, strumenti e telefoni), introducendo il dramma della protagonista Dani (Florence Pugh), ragazza emotivamente instabile che perde la sorella e i genitori. Il suo unico appoggio è il fidanzato Christian (Jack Reynor), che inizia a sopportare di malavoglia le fragilità della compagna.

Al contempo la relazione in crisi gli fornisce un comodo alibi per non lavorare alla sua tesi di laurea. La coppia vive una situazione di dipendenza reciproca che, a prescindere dal surreale sviluppo della storia, sarebbe comunque finita con l’abbandono. Il gruppo di amici di Christian, dietro consiglio di Pelle (Vilhelm Blomgran), organizza una gita in Svezia per raggiungere la piccola comunità dove quest’ultimo è cresciuto. L’insediamento rurale, caratterizzato da uno scenario idilliaco alla Heidi, nasconde un culto pagano che opererà un lavaggio del cervello sul gruppo, facendo sparire chiunque non si sottometta. Si parte insomma da un topos ben radicato, quello della collettività chiusa al mondo esterno e ancorata a riti anacronistici.

I valligiani svedesi sembrano un misto tra una colonia di Amish e un branco di hippie in perenne fattanza. Vestono con abiti tradizionali, vivono dei frutti della terra e accompagnano ogni momento della giornata con canti e balli cerimoniali. L’epicentro delle loro credenze è il ciclo della vita, che dal decesso giunge alla rinascita. Nulla è immune a questa regola, nemmeno le storie d’amore. Tale concezione esistenziale viene applicata fin troppo alla lettera, come scopriranno i turisti americani quando è ormai troppo tardi. L’assunzione di droghe (accompagnata sovente da distorsioni visive) e le divisioni interne rendono il gruppo sempre più cieco, con Dani che trova una nuova famiglia nella comunità di Hårga, mentre Christian si dà all’adulterio con tanto di rito orgiastico e decide di rubare l’argomento per la tesi al compagno di studi Josh (William Jackson Harper). Sullo sfondo di una bucolicità atemporale si materializzano egoismi e rese dei conti, con l’aggiunta dello yankee scemo Will Poulter che sbava dietro a pupe scandinave e piscia sugli alberi sacri. Tutti sono così concentrati su se stessi da non fiutare il pericolo.

Ari Aster condisce i suoi 140 minuti di travagli psicologici e suggestioni mistiche con una fotografia sovraesposta, abbagliata dalla luce diurna, riuscendo a far apparire inquietante anche un prato di campagna. La brutalità dei momenti splatter, dosati all’indispensabile, viene amplificata dai colori chiari. Le ore notturne scarseggiano e questo, insieme alle barriere linguistiche e all’imperscrutabilità degli abitanti locali, spoglia il nucleo protagonista di ogni certezza, insieme allo spettatore. La parte centrale soffre di lungaggini notevoli e di vezzi autoriali che sono il guanto di sfida del regista, intenzionato a ribadire senza sosta le stranezze degli autoctoni svedesi. Dopo il centesimo coro tribale, pianto isterico e stesura del bucato viene quasi voglia di gridare  “Ok, ho capito, questi tizi sono fuori di testa, possiamo andare avanti?”.

Non ci sarà nessun espediente narrativo familiare a condurvi per mano, se escludiamo le prevedibili scomparse e le strategie di coercizione mentale impiegate da ogni setta che si rispetti. Nessuna fuga concitata tenterà di strappare i personaggi alla loro sorte, che pare scritta dal principio (osservate le pitture e le decorazioni delle capanne), senza l’intervento di un plot twist su chissà quale retroscena sovrannaturale. Dimenticate infine i jump scare, perché ad Hårga l’orrore viene consumato teatralmente, alla luce del sole. Per affrontare indenni la gita vi consigliamo una colossale riserva di pazienza e un gusto per il grottesco, sublimato da una portata principale a base di tortino con peli pubici. Lassù nel profondo nord, l’amore deviato genera mostri folk.

Di seguito potete recuperare la nostra reaction su Facebook dopo l’anteprima stampa a Milano:

4 commenti Aggiungi il tuo

  1. The Butcher ha detto:

    Recensione veramente interessante e ben fatta. Purtroppo nel mio cinema e dintorni non l’hanno trasmesso (maledetti!) e quindi temo che dovrò recuperarlo in home video anche se ero elettrizzato all’idea di vederlo in sala.

  2. Monster Movie ha detto:

    Grazie mille, noi l’abbiamo visto in anteprima a Milano e in sala è stata un’esperienza abbastanza provante. Uno dei giornalisti si alzato a metà proiezione e ha girato i tacchi. Comunque un esperimento interessante.

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