PETS – OVVERO TOY STORY CON GLI ANIMALI

PETS – OVVERO TOY STORY CON GLI ANIMALI

di Alessandro Sivieri

Ogni tanto bisogna prendersi un break da alieni assassini e creature gigantesche. Fortunatamente, oltre che un fanatico di tutto ciò che è orrido, sono anche un accanito divoratore di cartoni animati, classici o 3D poco importa. Un settore dove tira parecchio l’asse Disney-Pixar, i cui prodotti non mancano mai di farmi innamorare (in particolar modo Frozen con le sue due principesse). Il bello di questi cartoni è che, oltre alle gag e ai buffi comprimari che conquistano i più piccoli, offrono sovente riflessioni esistenziali di non poco conto, lezioni sulla vita, sulla società, sui rapporti umani o tra l’uomo e la natura (concetti che si mescolano quando i protagonisti sono spesso e volentieri animali antropomorfizzati). E poi c’è l’estetica, il design fantasioso e a volte grottesco dei personaggi, che risulta in buona misura attinente al tema della nostra pagina (Monsters & Co. vi dice nulla?).

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Ora, a scanso di equivoci, non c’è solo la Disney là fuori: abbiamo, per esempio, la DreamWorks, che risponde alla concorrenza colpo su colpo con i suoi Shrek, Kung Fu Panda e Madagascar.

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Poi abbiamo Pets, prodotto dalla Universal e diretto da Yarrow Cheney e Chris Renaud (già co-regista di Cattivissimo me e Lorax). Pensate, non avevo nemmeno intenzione di andare a vederlo, ma nella mia compagnia di amici si è di colpo liberato un biglietto già prenotato. Non ne sapevo molto, persino il trailer era stato liquidato rapidamente in una serata di esplorazione facebookiana. Ho imbracciato un sacchetto di liquirizia, mi sono abbandonato sulla poltroncina ed eccoci qua, a parlare di un lungometraggio animato che un’impronta (canina) te la lascia, ma al minimo sindacale. Il microcosmo dove si muovono i protagonisti è quanto di più classico vi possa essere: nel caro, vecchio Toy Story i giocattoli prendevano vita durante l’assenza degli umani, costituendo di fatto una società a parte; qui gli animali domestici evadono e interagiscono tra loro mentre i padroni sono fuori casa. Uno schema collaudato fino allo sfinimento, dove un mondo segreto prolifera all’insaputa dell’uomo (e in particolar modo degli adulti).

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Anche la coppia di protagonisti ci ricorda in modo sinistro il rapporto tra Woody e Buzz Lightyear: Max è un giovane e viziato Jack Russell Terrier, attaccatissimo alla sua padroncina Katie, che vive sola in un appartamento di New York. Il problema è che un giorno quest’ultima, in preda a un’ondata di altruismo, adotta Duke, un cane di grossa taglia, goffo e apparentemente scontroso. Tra i due nascerà un’inevitabile rivalità e, nel tentativo di sbarazzarsi l’uno dell’altro, si perderanno nei meandri della città. Vagando in cerca della via di casa verranno presi di mira da una gang di animali randagi che odiano gli umani, mentre Gidget, una cagnolina innamorata di Max, assemblerà una piccola task force di amici pelosi per rintracciare i due.

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L’epilogo è ovviamente scontato, tra fughe rocambolesche e una comicità marcatamente slapstick. Manca l’originalità e non manca invece qualche leggerezza nella scrittura, con personaggi che per quanto simpatici non hanno alcuna evoluzione psicologica (Gidget però è l’eccezione). E ci può stare, perché alla fine i comprimari sono lì per far ridere e ci riescono alla perfezione: coniglietti psicopatici, bassotti contorsionisti, barboncini metallari, gatti obesi sarcastici e falchi che trattengono a stento la propria sete di sangue. I più anonimi del gruppo sono proprio Max e Duke, i due protagonisti, che corrispondono al piccoletto scaltro e al gigante impacciato, ma senza quel tocco in più. Abbiamo la solita catena di equivoci, le situazioni di pericolo dove si salvano la vita a vicenda e qualche recriminazione piuttosto forzata (Duke che accusa Max di tradimento dopo aver scoperto la morte del suo vecchio padrone). Vuoi mettere la profondità di un Buzz in crisi d’identità che scopre di non essere un vero astronauta? O di un Ralph Spaccatutto che fugge da un ruolo precostituito?

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Si sente anche la mancanza di un’analisi sociologica di fondo, quella riflessione al passo coi tempi che la Disney è sempre pronta a suggerirci, impegnandosi al massimo per non risultare ipocrita o stucchevole. La banda di randagi in cerca di vendetta, per dirne una, è buttata lì solo per costituire una minaccia, mentre avrebbe potuto innescare un bel ragionamento sui padroni buoni e su quelli cattivi, che si disfano di un animale quando non gli fa più comodo (come con i giocattoli… cazzarola, Toy Story!). Invece abbiamo un dolce senza la componente amara, come se gli autori avessero paura di mettere alla prova gli spettatori giovanissimi, delegando ogni evento potenzialmente traumatico (specialmente lo smarrimento di Duke) a uno sbrigativo resoconto orale. Un piatto dai sapori sbilanciati, dove potrete comunque abbuffarvi di comicità.

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PS: sarò io di parte, ma lo stereotipo gatto = egoista è evidenziato in modo molto più marcato rispetto al cane = tontolone. Questa pellicola è spiccatamente pro-cani.

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