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STAR WARS: Gli Ultimi Jedi. Il PORG ARROSTO è servito!

Epopea iconoclasta e cazzottoni ai fan.

di Alessandro Sivieri

Rian Johnson arriva, distrugge tutto e inizia a ricostruire sulle macerie. Un processo che fatto imbestialire parecchi aficionados. Va reso omaggio alla Disney, solitamente piaciona e conservatrice, per aver scommesso su decisioni di storytelling che si sono rivelate radicali e traumatiche. Se i critici hanno elogiato The Last Jedi, classificandolo meritatamente tra i migliori episodi del franchise, non mancano le rimostranze altrettanto comprensibili di chi si è sentito tradito.

Al sottoscritto e al collega Matteo Berta, che interverrà fra poco, il film è piaciuto parecchio, sebbene ci abbia trollati per più di un’ora. Il regista inizia fin dai primi attimi a tirare cazzotti in faccia ai fan di lunga data, dicendogli: “Ti aspetti che succeda questo? No. Luke Skywalker dovrebbe reagire così? No, vaffanculo. Vuoi conoscere la verità? No, arrangiati”. Una trama apparentemente lineare nasconde un’opera personale e difficile da digerire, specie se ci si aspettava una rievocazione in salsa The Force Awakens (che pure ho apprezzato).

La prima parte di Episodio VIII mi ha fatto quasi disperare: credevo di ingoiare a forza una minestra riscaldata, dove i protagonisti compiono azioni inutili e vengono incastrati in situazioni anti-climatiche. Ho anche dovuto assistere, con sommo orrore, a una delle scene più ridicole della saga (non vi anticipo nulla, vi dico solo Mary Poppins).

Da metà film in poi emerge quell’opera autoriale che ci aspettavamo: momenti emotivi, scene iconiche, filosofia e scelte coraggiose. Sembra che cambi tutto, dalla regia, al ritmo e ai toni, accentuando la sensazione di trovarsi davanti a due film differenti. Nel finale emerge la valenza simbolica di un percorso minuziosamente costruito, che spinge al limite la tua sospensione dell’incredulità per farti ripartire con la mente sgombra. Alcuni eventi, abbastanza autoconclusivi, fanno pensare più a un epilogo da trilogia che non da episodio centrale. Arrivi a perdonare volentieri gli inciampi della prima parte e hai subito voglia di rivedere il film, perché annuncia l’inizio del nuovo Star Wars, dando un taglio netto all’accanimento terapeutico su qualcosa che non può ripetersi. Scopriamo delle verità sulla Forza e ci accorgiamo che alcune risposte a lungo agognate non sono importanti, perché erano le domande a essere sbagliate.

Sebbene regnino i colori accesi come il rosso, simbolo di contrasto e cambiamento, a dominare spiritualmente è il grigio: la Forza è neutrale, come la natura raccontata da Terrence Malick e Tarkovskij, quindi dove prolifera il Lato Chiaro cresce anche quello Oscuro, portando l’individuo a spogliarsi delle ipocrisie e riflettere senza preconcetti. Non esistono più Prescelti ma le scelte dei personaggi, che sono l’esatto specchio dello spettatore: tutto ciò a cui credevano si sgretola e vengono messi di fronte al caos. Si sentono smarriti e hanno paura, molta paura. Come la Resistenza e Poe Dameron (Oscar Isaac), che perdono la speranza e devono rinunciare alle vecchie logiche. Come Rey (Daisy Ridley) e Kylo Ren (Adam Driver), connessi tra loro e dilaniati internamente: una cerca il proprio passato, l’altro ne viene soffocato. La coppia offre alcuni dei momenti migliori, tra cui un passaggio cruciale e una scena di combattimento magistralmente orchestrata. E poi c’è Mark Hamill con un Luke Skywalker burbero e in fuga dai propri errori.

Non è l’essere divino e il maestro che tutti vorremmo, ma ha ancora molto da dire, insegnandoci che c’è una gran differenza tra mito e realtà, come si nota dallo stile di Johnson, a metà tra lo spettacolo spielberghiano e il realismo nolaniano, condito da un umorismo iconoclasta. Lo apprendiamo fin dall’incipit, quando Luke compie un gesto che ha azzoppato l’epilogo di The Force Awakens, come se il team di produzione si fosse chiesto “Qual è la cosa più inaspettata e offensiva che potrebbe fare? Ok, facciamolo!”. Le relazioni interpersonali acquisiscono più sfumature e si gettano i semi per delle romance, che però rimangono sullo sfondo (anche se Rey potrebbe benissimo fare sesso telefonico con la Forza, per la gioia delle fanfiction).

Essendo un prodotto Disney abbondano le scene di commedia, ma non sono forzate come accade talvolta nei prodotti Marvel, dove la storia e i dialoghi vengono piegati alla risata. L’umorismo non è dialogico ma nemmeno corporeo, è semplicemente visivo. Nelle scene accadono cose potenzialmente divertenti, se vuoi ridere fai pure, altrimenti andiamo avanti. Nota di merito per le creature stravaganti a cui Star Wars ci ha abituato: mancano i mostroni zannuti ma le bestie sono ben disegnate e funzionali alla storia.

I Porg si infilano ovunque ma non sono di troppo, dando un’utilità a Chewbacca e alleggerendo un viaggio che mette a dura prova. E non parliamo solo del lato filosofico (ce n’è più qui che negli ultimi due film) ma della perdita di orientamento. Alcuni passaggi, come l’infiltrazione nel casinò spaziale, ci hanno riportato a quell’imprevedibilità che tanto abbiamo apprezzato in Valerian e la città dei mille pianeti di Luc Besson (PIANETI e la città dei mille VALERIAN). È il nuovo corso dell’avventura spaziale, sfrontata e anarchica, dove puoi stare al gioco o rimanere indietro. Prendere o lasciare.

Il Dio Williams e una regia che ci fa riscoprire il contatto con noi stessi.

di Matteo Berta

Sarebbe illogico è e di cattivo gusto parlare di una maturazione di John Williams avendo ottantasette anni ed essendosi affermato come (a mio parere) il più grande musicista di tutti i tempi, ma la sensazione nell’ascoltare un paio di volte la colonna sonora di The Last Jedi autonomamente e poi trovare i riscontri approcciandosi al film è proprio quella, Williams ha avuto più tempo per scriverla, ma ha anche trovato un prodotto migliore da commentare, un film che non richiedesse a forza i temi originali da incollare in sequenze costituite malamente per nostalgia (TFA).

John Williams da ottimo corteggiatore, alle prese con un approccio romantico.

Il nostro amato John ha potuto giocare con la sua importantissima eredità tematica e integrarla con un solo nucleo tematico nuovo, che mi ha ricordato molto suggestioni spaziali datate o un vecchio Silvestri in stile Ritorno al futuro.

Ho trovato il suo approccio molto funzionale alla vicenda e soprattutto sembra che questo lavoro non gli sia pesato ma al contrario lo abbia fatto divertire, se pensiamo alla sequenza del casinò dove in pochi minuti abbiamo tra cambi di stili musicali (dal sinfonico classico al commento in stile golden ages) e questa “spensieratezza musicale” (istintività legata alle emozioni pure) mi ha ricordato le partiture di Harry Potter e di Indiana Jones, per quest’ultimo forse anche perché alcune sequenze del film mi hanno ricordato la bella e chiara avventura dei registi della new hollywood.

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La rivoluzione stilistica e narrativa ( il mattone in faccia ai fan) ha pervaso non solamente l’aspetto storiografico e concettuale del confezionamento starwarsiano, ma anche e soprattutto il comparto tecnico-artistico che per la prima volta nell’intera saga di guerre stellari, acquisisce un punto di vista. Se la “regia tangibile” in The Force Awakens si estingue nei primi quindici minuti del film, Rian Johnson è stato in grado di imporre (non si sa come, forse è così che funziona la forza) ai produttori stagnanti e dolciari Disney una logica che è essenzialmente d’autore.

L’idea di una persona, il suo punto di vista è percepibile e tangibile in un buon novanta per cento dell’intera esperienza cinematografica. La cura dei dettagli e l’emotività di alcune carrellate in avvicinamento la fanno da padroni, Johnson si pone come un ponte tra le suggestioni sporche e viscerali del Nolan più oscuro e l’immediatezza poetica delle emozioni “calde” dello Spielberg di vent’anni fa. Se nel settimo capitolo della saga gli attori venivano penalizzati da una scrittura psicologica “riciclante” e diretti in modo più inverosimile possibile (vedi la Ridley sopra le righe nel primo atto), qui conquistano lo spettatore e inevitabilmente escono i vari Oscar Isaac, Laura Dern, Mark Hamill e soprattutto si prende la scena un Adam Driver in grado di far leva sul suo passato da militare e il suo innegabile talento espressivo.

La regia personalissima si missa ad un montaggio (sempre stravolgente per gli standard starwarsiani) che diventa essenziale e non si perde in virtuosismi da “accecamento hollywoodiano contemporaneo” dove si recupera il primo significato del montaggio intellettuale e in particolari sequenze pure quello analogico.

Questo Star Wars rappresenta gli incubi più tenebrosi della fanbase più conservatrice e la via di fuga più piacevole per quelli come noi, che vogliono mantenere un bel ricordo di una galassia lontana lontana, ma oramai siamo cresciuti e non ci basta l’avanzo di pizza della sera prima da riscaldare la domenica mattina a colazione, perché noi la pizza non la avanziamo più.

Che la forza sia con voi.

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