IL RACCONTO DEI RACCONTI – IL FANTASY ELEGANTE ALL’ITALIANA
di Alessandro Sivieri.
“I want to believe”, diceva l’agente Mulder. Voglio credere ancora nella poliedricità del cinema nostrano, nella capacità di andare oltre quei due generi dominanti che sono la commedia con risvolti demenziali e il gangster movie alla Romanzo criminale. Quando il nostro volto cinematografico, che rappresenta la nostra cultura di fronte a milioni di spettatori e giurie più o meno influenti, non va oltre le sparatorie in periferia, i circoli malavitosi, coppie isteriche che coronano il loro sogno d’amore a suon di equivoci e battute in romanaccio una dietro l’altra, significa che c’è qualcosa che non va. È come una creatura agonizzante, assetata di sperimentazione e di un salvifico abbandono all’immaginazione. Insomma, basta con i complessi di inferiorità e con le logiche produttive autoimposte, possiamo fare di più e meglio! Avere aspettative così radicali (e di evidente derivazione esterofila) porta ovviamente a ricevere sonore mazzate e disillusioni, ma ogni tanto salta fuori la pellicola diversa, quella che funziona. Matteo Garrone, uscito da un film realistico come Gomorra, ce l’ha fatta, e senza suonare troppo pretestuoso. Ed è soltanto uno del nutrito sottobosco di autori “coraggiosi” che stanno pian piano salendo alla ribalta, quelli che imboccano una direzione inedita. Sia chiaro, il diverso non corrisponde necessariamente al ben fatto: sono il primo detrattore del cosiddetto tifo da stadio, della fame di novità così accecante che porta a giudicare positivamente qualunque prodotto un po’ alternativo. Il genere non conta nulla se manca la qualità, e non sono nemmeno pronto ad applaudire solo perché un regista italiano coinvolge attori internazionali nel suo progetto. Per lo stesso motivo non condanno a prescindere l’uso – qui piuttosto limitato – della CGI, più affine a opere d’oltreoceano per la disponibilità di mezzi. Con Il racconto dei racconti, fortunatamente, abbiamo un’opera di respiro europeo che però non soffre il confronto con paesi più affini a questo tipo di produzioni.
Ispirata alla raccolta di fiabe Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, la pellicola è composta da tre episodi, dalle storie di più protagonisti che coesistono nel medesimo universo: abbiamo un sovrano (John C. Reilly) che per curare la sterilità della consorte disperata (Salma Hayek), uccide un drago marino per estirparne il cuore, morendo nell’impresa. La regina, ormai vedova, partorisce un figlio albino, che crescendo si accorgerà di avere una sorta di gemello, partorito dalla serva vergine che cucinò il cuore. Il loro rapporto, al quale la madre possessiva è molto contraria, si svilupperà attraverso fughe e scambi di persona (Christian e Jonah Lees, i due giovani interpreti, sono realmente gemelli). Abbiamo poi una giovane principessa (Bebe Cave) costretta a sposare un crudele orco per colpa di una scommessa persa dal padre, il re di Altomonte (Toby Jones). Il terzo episodio riguarda le peripezie del re di Roccaforte (Vincent Cassel), erotomane incallito (in confronto il Michael Fassbender di Shame è quasi un frate) perennemente in cerca di fanciulle da conquistare; si innamorerà per errore di Dora (Hayley Carmichael), un’anziana plebea che lui crede ancora nel fiore degli anni, non avendola mai vista in volto. Ovviamente la donna, sapendo di trovarsi di fronte all’occasione della vita, farà di tutto per portare avanti l’inganno, anche a discapito della propria sorella.
Tutta questa catena di eventi si consuma tra location suggestive e fuori dal tempo, scene surreali dal forte impatto visivo, inganni, tradimenti e spargimenti di sangue. Perché questo film, quando è necessario, sa essere crudo e non lesina sulle mutilazioni, anche auto-inflitte. Ugualmente spietato è il tema di fondo: abbiamo giovani innocenti che affrontano un destino infausto per colpa della dubbia moralità degli adulti, eppure alla fine ne escono vincitori, anche se marchiati a vita dagli atti che hanno compiuto; solo quando anche loro si sono “sporcati le mani” sembrano finalmente degni di ascendere al trono. Storie di menzogne e di crudeltà, favole nere che Garrone porta sullo schermo con efficacia, anche se con qualche passaggio un po’ forzato (vedasi il ringiovanimento di Dora e l’orco un po’ troppo duro a morire).
Abbiamo poi l’aspetto della pellicola che ci interessa maggiormente: quello monster, con strane creature che in alcuni frangenti funzionano alla grande. Lo scontro iniziale con il drago marino, in tal proposito, è sicuramente uno dei momenti più suggestivi della pellicola, teso e ottimamente girato. La fotografia e il lato artistico qui mostrano veramente i muscoli, con un buon equilibrio tra la computer grafica e la presenza scenica degli elementi. Non resta che lustrarsi gli occhi e farsi trasportare da un racconto visionario e viscerale, un funzionale ibrido tra fiaba e tragedia (in fondo non sono due generi così distanti, i fratelli Grimm ne sapevano qualcosa). E se la cura dei personaggi è un po’ subordinata allo stile e alla messa in scena magniloquente, ci auguriamo che la sortita di Garrone faccia da apripista a esperimenti analogamente ambiziosi.
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