THE FOUNTAIN – LA FANTASCIENZA NEW AGE DI ARONOFSKY

THE FOUNTAIN – LA FANTASCIENZA NEW AGE DI ARONOFSKY

di Alessandro Sivieri

Oggi voglio portarvi alla scoperta di un’opera dimenticata, uno dei film che mi sono più cari. Scoperto per caso, amato per destino, The Fountain rappresenta l’esplosione espressiva di Darren Aronofsky, sempre pronto a mescolare i generi e disorientare lo spettatore. Collocato prima di Noah (il polpettone biblico) e di Black Swan, successivo agli esordi de Il teorema del delirio e Requiem for a Dream, questo lungometraggio è quanto di più atipico possiate incontrare: Hugh Jackman e Rachel Weisz sono la coppia protagonista di una storia d’amore che si svolge su più piani temporali, se non addirittura dimensionali. Tommy Creo (Jackman) è un ricercatore che lavora senza sosta per trovare una cura alla malattia terminale che sta uccidendo la moglie Izzi (Weisz); quest’ultima sta scrivendo un romanzo su un conquistador (sempre interpretato da Jackman) che si imbarca in una missione nel Nuovo Mondo, in cerca delle rovine Maya che custodiscono il leggendario Albero della vita, unica speranza di salvezza della sua imperatrice (sempre Rachel Weisz). In ultima, Jackman interpreta anche una specie di monaco-astronauta che viaggia nello Spazio profondo portando con sé il fantomatico Albero della vita, diretto verso Xibalba, una stella morente, nel tentativo di ricongiungersi con la moglie e scoprire il segreto dell’eternità, sconfiggendo la morte.

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“Che cazzo si è fumato Aronofsky?” vi chiederete. Me lo sono chiesto anch’io, ma prima ancora sono rimasto ammaliato dalla sua poetica, una sorta di opulenza minimalista. Potrebbe sembrare un controsenso ma non lo è. Il film in origine doveva rappresentare l’esordio del regista nel girone mainstream, con la Warner Bros. pronta a sborsare 100 milioni di dollari e attori del calibro di Brad Pitt e Cate Blanchett come protagonisti. Le sue ambizioni non avevano nulla da invidiare ai vari The Tree of Life e Interstellar, con una storia d’amore e morte in grado di trascendere lo spazio-tempo. E così è stato, anche se con interpreti differenti e un budget notevolmente ridotto dalle vicissitudini produttive. Sia chiaro, un Jackman così non lo avevamo mai visto, e alla sua interpretazione struggente affianca una perfetta alchimia con la Weisz, bellezza fragile e irraggiungibile. Il nostro amato Wolverine ha persino preso lezioni di Tai Chi per più di un anno solo per eseguire correttamente la Posizione del Loto!

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Le linee temporali che si alternano nella narrazione, pur se accomunate da un’estetica visionaria e ben riconoscibile (patine dorate ovunque!), rappresentano tre dimensioni alternative, tre fasi del nostro essere: alla fredda realtà di tutti i giorni, dove trovare una cura per il cancro è un’impresa dura e incerta, se ne sostituisce una romanzesca, creata dalla fantasia della moglie di Tommy, dove l’eroe romantico naviga dall’altra parte del mondo per salvare la propria donzella. Un romanzo che è anche un atto d’amore, il lascito della moglie che dovrà essere completato dal marito. Poi abbiamo la dimensione più allegorica, quella del viaggio spaziale (il lato spirituale di Tommy), che raggruppa e sublima tutti gli elementi del film: mitologia precolombiana e giudaico-cristiana, cultura new age, esistenzialismo, filosofia orientale, cosmogonia. La vita e la morte dell’essere umano legate alla fine e rinascita dell’Universo.

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Un calderone dalla portata fin troppo ampia che però riesce a risultare coerente, compiuto. Per la serie: o ne esce un casino o ne esce un capolavoro. E se negli anni successivi non sono mancate pellicole sull’amore come chiave per l’infinito, questa rimane una delle più emblematiche, grazie alla elegante messa in scena e alla carica emotiva. Solo il già citato Interstellar di Nolan mi ha trasmesso vibrazioni simili. Anche in questo caso siamo di fronte a un’opera che divide. Se adesso è venerata come un cult da una ristretta cerchia di accoliti, durante il suo esordio a Cannes venne fischiata da critici e stampa. Molto pacatamente, credo che questi ultimi siano dei rincoglioniti.

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Come se non bastassero la regia, gli interpreti e gli effetti speciali ispirati a Kubrick, c’è quello che forse è il vero fiore all’occhiello della produzione: una colonna sonora da brividi del fedele Clint Mansell, che supera veramente se stesso, con brani che ci fanno raggiungere uno stato il più vicino possibile alla pace dei sensi. O al trip mentale. Se anche qui dovessi evocare sensazioni analoghe, dovrei tirare in ballo il lavoro fatto da Hans Zimmer per La sottile linea rossa.

Quello di Aronofsky è un outsider con la portata di un kolossal, una favola fantascientifica accantonata troppo in fretta. Se avete bisogno di cibo per l’anima, recuperatela. Attenzione, per i più razionali potrebbe finire con un mal di testa.

THE FOUNTAIN

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