di Cristiano Bolla
È stata un po’ la notiziona d’inizio estate: quando molti fan stavano guardando, finendo o tentando di capire i possibili sviluppi della seconda stagione uscita a Maggio, ecco la mazzata, la cancellazione della serie delle Sorelle Wachowski, Sense 8. Poco tempo dopo, il vero colpo di marketing: a chiudere la serie arriverà uno speciale di due ore in uscita nel 2018.
Creata da Lana e Lily Wachoski assieme a J. Michael Straczynski (firmatario di alcune graphic novel meravigliose e stretto collaboratore delle creatrici di Matrix), Sense8 racconta la storia di questo gruppo di persone inter-connesso tra di loro, individui di una specie umana minoritaria ma più evoluta dei Sapiens e per questo cacciata e tormentata da un’organizzazione mondiale, la BPO, e dal suo Cannibale, Milton Whispers. La prima stagione è passata per lo più a far conoscere i personaggi, dislocati in tutto il mondo tra USA, Messico, Germania, Islanda, Kenya, India e Korea del Sud. L’elenco delle location è di per sé già motivo evidente della complessità della serie, che comunque è sempre stata molto apprezzata. È stato giusto oppure no cancellarla? Ci sono pro e contro.
I PRO
Partiamo dai contenuti: la serie è decisamente apprezzabile, ma sia la prima che la seconda stagione danno l’idea di essere tanto, veramente tanto interessanti ma sviluppate e condotte in modo troppo retorico, lirico e poco concreto. Tantissima carne al fuoco non si cuoce benissimo: l’idea alla base è vincente, così come tutte le connessioni tra i personaggi e la maniera in cui vengono a relazionarsi gli uni con gli altri, ma tolto questo lato “magico” la serie diventa lenta, noiosetta e in certi tratti molto banale. Sono tanti i momenti lirici, quelli in cui l’immagine e la poetica che i Wachowski hanno creato fanno dire “eh, ma quindi?”, così come molte le parti eccessivamente retoriche, da figli dei fiori, affidate spesso a personaggi che sono delle macchiette. I tre minuti finali della seconda stagione, inoltre, sono da arresti domiciliari: inspiegabili, narrativamente pasticciati, come se avessero dovuto chiudere tutto in quattro e quattr’otto, solo che non si chiude niente e anzi il cliffhanger è di quelli potenti. Più che una ciliegina sulla torta, questo finale è una palla di fango. Peccato.
Dal lato produttivo, c’è da dire che per Netflix, come tutte le compagnie con un fatturato stellare e che deve mettercene altrettanti per proporre dei contenuti che attirino lo spettatore, Sense 8 era l’equivalente di una cena con aragosta ogni volta che si porta a cena la fidanzata. Non la più costosa (10 milioni di dollari a puntata, contro i 13 di The Crown) ma certamente quella produttivamente più complessa: quattro continenti, miriadi di location e un piano di lavorazione che prevede scene girate, rigirate e contro-rigirate per rendere conto dell’inter-connessione dei personaggi. Un dialogo a due tra Kala (India) e Wolfgang (Germania), va quindi girato due volte, tenendo sempre conto dei momenti del montaggio finale in cui saranno insieme, da soli e in quale delle due location. Per un produttore è un incubo ma anche una sfida interessante. Difficile tuttavia giustificarne l’esistenza a fronte di un pubblico ristretto, molto ristretto per i numeri cui ormai i produttori e distributori devono rapportarsi.
Netflix sta optando per una strategia più simile al dividi et impera: produzioni relativamente low budget ma numerose, con pochi prodotti di punta a prendersi un po’ più di budget. E qui arriva la parte in cui cancellare Sense 8 è stato ingiusto.
I CONTRO
Perché sì, sarà pure incredibilmente costosa, retorica e tutta fascino e niente arrosto, ma guardando al periodo di casa Netflix viene da chiedersi: davvero questa era la serie da cancellare? Non è un buon momento per la piattaforma di streaming leader del suo mercato e anche di parte di quello cinematografico tout court. Netflix sta cambiando le regole del gioco in ambito produttivo, spesso impedisce la ripartizione delle distribuzioni (tra theatrical, non-theatrical, home video e quant’altro) arrivando dalla produzione con una valigetta di soldi: “Ti servono 20 milioni? Eccoli, il tuo film è nostro”. Modello produttivo che paga, visto che comunque i prodotti Netflix sono protagonisti ai Golden Globe, agli Emmy e pure agli Oscar.
È anche vero che la serialità sta cambiando e alla lunga narrazione si preferiscono mini-serie da 10-13 episodi, auto-conclusive o comunque aperte ma non eccessivamente stancanti per lo spettatore. Lontani i tempi di Lost, Prison Break e altre serie di quella durata. Quindi riepilogando: tante serie, poco costo. Ma la qualità? Negli ultimi tempi Netflix ne sta imbroccando poche e spera negli exploit di alcune serie, come Thirteen Reasons (qui la nostra recensione), che sono belle ma modeste. Altre sono addirittura un disastro, come Glow, Gipsy e tanti altri prodotti di cui si fatica a capire la ragion d’esistere.
In mezzo a tutto questa pressapochità, Sense8 era una sorta di boccata d’aria perché, al netto dei difetti sopra esposti, si respirava comunque una precisa autorialità, un’idea produttiva e artistica di base che lo rendeva un prodotto unico sotto tutti gli aspetti. Un azzardo, sicuramente, ma proprio quel fascino oltre cui la serie non riesce andare era una ragione sufficiente per tenerla in vita. Soprattutto se rapportata a tutto quello che la circonda.
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Guardando al marketing, alla fine l’hanno vinta ancora loro: lo speciale di due ore in uscita nel 2018 farà probabilmente il botto, i fan saranno accontentati con un finale (si spera) soddisfacente e Netflix potrà muoversi su altre serie. Risparmiando, ma perdendo un prodotto di valore artistico e cinematografico.
Anche perché in fondo, se le alternative sono prodotti come Iron Fist… Lasciamo stare va.
Non è (in)giusto… è PERFIDO 😠