Il nuovo film di Polanski è sbarcato a Venezia in un tripudio di polemiche, per poi aggiudicarsi il Gran Premio della Giuria.
di Carlo Neviani
CAPITOLO I: ACCUSATO
“He’s the hottest filmmaker in town… or maybe in the world“. È con questa frase che Rick Dalton alias Leo DiCaprio sottolinea l’importanza del regista Roman Polanski, che compare come personaggio a fianco della moglie Sharon Tate, nel nuovo film di Tarantino (QUI la recensione). Nel 1969 era da poco uscito uno dei suoi capolavori, Rosemary’s Baby, ed era solo l’inizio dell’incredibile filmografia del cineasta polacco. Pur essendo uno dei più grandi maestri del cinema viventi e ancora in attività, non è un personaggio particolarmente amato dalle masse, soprattutto in epoca #MeToo: è noto infatti che nel 1977 venne accusato di violenza sessuale ai danni di una minorenne. L’accusa venne ridotta al solo capo di “rapporto sessuale extra matrimoniale con persona minorenne”, quindi non si trattò di stupro, e Polanski finì in prigione per poco più di un mese. Da lì in poi la sua vita diventa una fuga continua dalla giurisdizione: lascia gli Stati Uniti, viaggia solo in stati europei dove non può essere estradato, dal 2005 finisce sulla lista rossa dei ricercati dall’Interpol, viene arrestato a Zurigo mentre ritira un premio nel 2009, seguono reazioni pubbliche di politici e artisti che lamentano dell’arresto e nel 2010 le autorità svizzere attuano il rilascio sottolineando come il regista abbia già scontato l’intera pena inerente all’accusa. Non sta a noi giudicare una vicenda così intricata e ricca di argomentazioni delicate, ma è per questa e altri motivi (basta una piccola ricerca per approfondire) che la presenza del nuovo film di Polanski alla Mostra del Cinema ha portato a numerose discussioni e polemiche.
CAPITOLO II: LUCRECIA & ALBERTO
Mercoledì 28 agosto 2019. Siamo alla conferenza stampa di apertura di Venezia 76, spazio in cui i giornalisti possono fare domande ai membri della giuria del concorso. Ovviamente, arriva la bomba: viene chiesto alla presidente Lucrecia Martel, regista argentina molto attiva in ambito di diritti femminili, se ritiene possibile giudicare un’opera, J’accuse, senza l’artista che c’è alle spalle. La risposta: “Io non separo l’uomo dall’opera. Trovo anzi interessante come le opere d’arte rendano visibile l’uomo che le ha fatte. La presenza di Polanski è un disagio per me, ho fatto una piccola ricerca in merito e ho visto che la vittima di Polanski si è ritenuta soddisfatta del risarcimento ottenuto. Io non posso mettermi al di sopra di tutte le questioni giudiziarie che ancora sono aperte, però posso essere solidale con la posizione della vittima, e per lei questa è una storia chiusa. Tengo a dire che se sarà possibile non assisterò alla proiezione di gala del signor Polanski perché io rappresento molte donne che stanno lottando in Argentina su questioni simili, e non vorrei dovermi alzare in piedi per applaudirlo. Però mi pare giusto che il film del signor Polanski sia in questo festival. Perché è un dialogo che va approfondito, e quale luogo migliore di un festival per proseguire questo percorso?”. Viene poi interpellato il direttore della Mostra Alberto Barbera, che dà una risposta diversa, meno interessante ma meno criticabile: “È fondamentale distinguere l’uomo dall’artista, la storia dell’arte è piena di artisti che hanno commesso crimini, ma non per questo abbiamo smesso di ammirare le opere che hanno prodotto. Questo vale anche per Polanski che è uno degli ultimi maestri del cinema europeo ancora in attività. Io ho visto il film e credo che meriti di essere qui, sono un critico cinematografico a cui è stato chiesto di giudicare se un film era degno di stare al Festival o meno, e ritengo che gli spettatori debbano fare altrettanto“. In seguito alla conferenza, come facilmente intuibile, numerose testate hanno cavalcato il clima di contrasti sulla questione. Viene appunto criticato il fatto che la Martel ritenga “scomodo” un film che dovrebbe giudicare senza pregiudizi e messa in discussione la scelta di Barbera di averla come presidente di giuria. Si vocifera addirittura di una possibile dimissione della regista argentina o del ritiro del film dal concorso da parte dei produttori di Polanski. A questo punto, sale l’hype di tutti per il film… Se il film è bello, che c***o succederà?
CAPITOLO III: L’AFFARE DREYFUS
Venerdì 30 agosto 2019. J’accuse (che in Italia uscirà il 21 novembre con il titolo L’ufficiale e la spia) viene proiettato al Lido e… grandissimo film. Polanski è acclamato all’unanimità dalla stampa italiana e internazionale con una votazione media altissima (4,5 su 5) addirittura mezzo punto sopra il Joker di Phillips (QUI la recensione). J’accuse, tratto dal best seller di Robert Harris, già sulla carta sembra il film perfetto per Polanski: la storia dell’affare Dreyfus, ovvero della condanna di un capitano ebreo per errore giudiziario, avvenuto in un clima politico particolare, nel contesto dello spionaggio militare, e di antisemitismo diffuso (Roman è un ebreo sfuggito per miracolo al nazismo). La pellicola di produzione franco-italiana (tra i produttori c’è anche Barbareschi) porta con sé chiari riferimenti all’uomo Polanski: esattamente come suggeriva Lucrecia Martel in conferenza, l’opera d’arte rende visibile l’uomo che l’ha fatta. Non necessariamente il regista vuole accostarsi all’innocenza di Dreyfus, piuttosto dipinge in modo interessante e straordinario le dinamiche della giustizia, fatta di scartoffie (un’immagine onnipresente sullo schermo) che spesso nascondono contraffazioni, errori e pregiudizi. Al di là dei riferimenti all’uomo, J’accuse è un film formalmente perfetto e inattaccabile. Ecco perché i critici non hanno potuto far altro che osannarlo. La storicità della vicenda è portata sullo schermo con un’accuratezza e un livello di dettaglio che non cede a compromessi, allungando i tempi nella prima parte (lenta ma necessaria) per poi esplodere nelle graduali e mai definitive vittorie del protagonista Picquart, ufficiale che per un decennio rischia la carriera e la vita per dimostrare la verità, che hanno apice di potenza nella pubblicazione dell’editoriale di Emile Zola citato nel titolo. La regia testimonia di essere quella di un grande maestro, dove ogni scelta, dal tipo di inquadratura alla direzione degli attori (ottima quella del protagonista Jean Dujardin che “spacca” sia sul lato verbale, che fisico) risulta azzeccata e a supporto della storia. Unica e bella anche la fotografia, che con i suoi toni smorti riesce a dare vita e realismo agli ambienti chiusi e soffocanti della legge. Insomma… proprio un bel film, anche se di impianto classico e studiato rispetto a film più viscerali di Polanski. Si potrebbe quasi fare (sottolineo il quasi) un paragone con ciò che ha fatto “Spielberg 3.0” con Il ponte delle spie e The Post rispetto a Lo squalo e JP.
CAPITOLO IV: PREMIATO
Sabato 7 settembre 2019. Serata di premiazioni a Venezia 76. E’ palese che J’accuse sia stato uno dei titoli più apprezzati in concorso, e che probabilmente vincerà almeno un premio, ma non era del tutto scontato che la femminista Martel dichiarasse il film vincitore del Leone d’argento Gran Premio della Giuria, secondo riconoscimento massimo alla Mostra del Cinema. Una vittoria per tutti. Vince Lucrecia Martel, che dimostra di poter giudicare un’opera senza pregiudizi. Vince Alberto Barbera nella sua scelta di includere Polanski in concorso e Martel in giuria. Vince Roman Polanski stesso che viene giustamente premiato per i suoi meriti, diversamente da quanto fatto dall’Academy, che dopo l’Oscar per Il pianista decide di espellerlo. Vince il cinema. Alla conferenza stampa finale, la Martel, interrogata sul giudizio a J’accuse risponde tornando sulla riflessione passata, fraintesa dai più: “Quando si parla di un film, non si evita di parlare della persona, dell’essere umano. La cosa peggiore che si potrebbe fare è separarlo dalla sua opera. La visione di Polanski del mondo è molto interessante per noi. Se si pensa che non parlare della persona aiuti il giudizio sull’opera ci si sbaglia“.
CAPITOLO V: C’ERA UNA VOLTA…
Abbiamo iniziato riferendoci a Tarantino, rifacciamolo nelle conclusioni. In C’era una volta a… Hollywood Quentin ci racconta una favola dove il cinema si prende il diritto di riscrivere la storia e riscattare gli sconfitti: in quel caso (senza spoilerare nulla) sono gli outsiders di Hollywood, che nel 1969 rischiavano di scomparire in un’industria che in poco sarebbe drasticamente cambiata, in Django Unchained è la schiavitù dei neri, in Bastardi senza gloria c’è letteralmente una première cinematografica che uccide il Terzo Reich. Anche il riscatto (artistico, ripeto che non sta a noi giudicare il resto) di Polanski con J’accuse sembra avere qualcosa in comune con questa favola: il cinema, e quindi l’arte, possono schiacciare i pregiudizi e i sospetti figli del clima sociale post #MeToo, che tra giuste rivendicazioni ha portato anche ingiustizie: troppi artisti etichettati come mostri su basi non concrete. Woody Allen, per citarne uno, pur dichiarato innocente, avrà una distribuzione limitata del suo ultimo lavoro. Speriamo in un lieto fine. Once upon a time…
Qui trovate il nostro commento a caldo sul film in diretta dal red carpet!