di Cristiano Bolla
Se tre settimane fa vi siete persi il lancio di Th1rteen R3asons Why, ci avrà pensato sicuramente la vostra bacheca di Facebook a farvi sapere dell’esistenza di questa nuova serie disponibile su Netflix. In pochi giorni, è diventato un caso: acclamata dalla critica e dal pubblico, questo teen drama basato sul libro omonimo di Jay Asher va a toccare temi e situazioni importanti e lo fa senza alcuna retorica.
Tredici episodi per tredici nastri, registrati dall’adolescente Hannah Baker, morta suicida poche settimane prima dell’inizio del racconto di 13 Reasons Why. Su ognuno di questi nastri, Hannah ha raccontato un pezzetto della sua vita e di cosa l’abbia portata al suicidio, andando di volta in volta ad indicare le persone responsabili. Queste registrazioni passano di mano in mano tra i responsabili, che prendono così coscienza dei guai in cui possono essere se venissero fuori: i nastri ora li ha Clay, a sua volta protagonista di uno degli stessi ma diverso da tutti gli altri attori di questa tragedia.
Scuola, bullismo, suicidio: tre parole che in ogni liceo (in tutto il mondo) sono tristemente legate tra di loro da un filo che, soprattutto nella nostra odierna società, si fatica a recidere. Il tema è sicuramente sentito negli States, dove a queste già di per sé tristi dinamiche si aggiungono spesso risvolti ancora più drammatici, come i mass shooting (Sandy Hook, Columbine e tante altre fanno da esempio). È per questo che 13 Reasons Why conquista subito: il tema, bello pesante, viene raccontato partendo dalla fine, dalla certezza che una serie di comportamenti e avvenimenti hanno portato al suicidio di una ragazza, vessata e portata all’estremo.
Viviamo tutta la sua vicenda tramite la sua voce e il suo racconto, come fa il protagonista Clay, uno che evidentemente ancora si ricorda di quando interpretava il figlio di Jack Shepard di Lost, perché ha lo stesso senso manicheo del bene e del male. Le cose però sono ancora più complicate, perché quel Clay deciso a non mettere a tacere gli atti di bullismo, sessismo e quant’altro occorsi ad Hannah, è lo stesso che sarà protagonista di uno dei nastri. Qua e là vengono sparsi dei dubbi sulla veridicità dei racconti di Hannah, ma tant’è: dal momento in cui assumiamo la sua prospettiva, è di lei che ci fidiamo.
Inevitabilmente ne prendiamo le parti e ci lasciamo guidare nel racconto, ora delusi e ora furenti. L’aspetto brillante nella scrittura della serie, tuttavia, è che tutti sembrano avere in parte ragione: gli sputtanamenti subiti da Hannah sono veramente bullismo? O forse era lei che era “troppo eccessiva, drammatica”? Questa serie non lavora di retorica, non cerca di fare stucchevoli lezioncine moraliste ma invece lavora ai fianchi: quello che viene mostrato dovrebbe bastarci per trarre delle conclusioni. E poco importa che “secondo noi” una foto leakata a tutta la scuola non sia un pretesto valido per un suicidio, il punto è un altro e viene brillantemente espresso più volte, anzi è il motore centrale delle azioni specialmente di Clay: ognuno deve prendersi la responsabilità delle proprie azioni, bisogna essere consapevoli che qualsiasi cosa ha delle conseguenze. Banale? Scontato? Fosse un mondo che trabocca empatia, assolutamente sì. Non lo è, quindi ben venga 13 Reasons Why a calarci in una storia con questa prospettiva, questi risvolti e soprattutto questa parabola: le foto e gli sputtanamenti non sono che l’inizio, si parte dalla punta dell’iceberg, per poi scoprire quanto oscure e immense siano le dinamiche sociali di ragazzini il più delle volte cresciuti male e senza la giusta guida.
Tecnicamente, 13 Reasons Why funziona perché il montaggio alternato è gestito in modo perfettamente bilanciato, tra piccoli indizi e continui richiami che legano il presente cupo e freddo di Clay al passato di Hannah, più caldo e luminoso ma solo visivamente. Interpretazioni fantastiche di tutti i protagonisti e ostacolo “ripetitività” brillantemente superato: il rischio c’era, perché far corrispondere tredici episodi ad altrettanti nastri poteva creare uno spiacevole effetto di continuo ripetersi della stessa formula; soprattutto il continuo turbamento psicologico di Clay e la figura demiurgica di Tony hanno tenuto in piedi tutta la struttura, che tiene incollato lo spettatore e lo rapisce fin quando l’ultima parola dell’ultimo nastro non è stata detta.
Tornando alla questione della retorica: chi non ha mai vissuto queste situazioni, difficilmente può calarsi completamente nei panni dei personaggi, ma il punto è proprio questo, smettere di pensare che certe cose non abbiano importanza e non debbano averla. Mettiamola così: chiunque, nel corso della propria vita scolastica, è stato sicuramente almeno una volta o una vittima o un bullo; c’è chi lo è stato per anni, chi ha fatto un po’ e un po’, ma queste sono situazioni che non sono così estreme da essere considerate finzionali. Non mi credete? Provate a ricordare, o a leggere, la storia del quindicenne seviziato sessualmente con una pigna da alcuni coetanei; è successo a Vigevano, non a San Bernardino.
Temi forti, narrazione efficace, interpretazione perfetta: 13 Reasons Why è una serie importante, che tocca i tasti giusti e lo fa senza giri di parole ne tanto meno catechizzando lo spettatore. La storia di Hannah, così raccontata, potrebbe essere la storia di chiunque e infatti non è ambientata in nessuna città specifica. Non saremo mai una società perfetta, ma se cominciassimo a formare meglio chi deve venire dopo di noi, un po’ meno peggio le cose potrebbero andare:
“I bambini non nascono bulli, gli viene insegnato a esserlo.”
STOP BULLISMO – http://www.stopalbullismo.it/
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