di Alessandro Sivieri
L’altra sera io e il mio amico gironzolavamo in una nota piattaforma di streaming alla ricerca di intrattenimento senza pretese. Alla fine siamo incappati in questa produzione a basso budget, diretta dallo sconosciuto Christian Cantamessa. La calamita che ci ha fatto premere Play è il co-protagonista Norman Reedus, veterano della serie The Walking Dead e attualmente in collaborazione con Hideo Kojima per il gioco Death Stranding, di cui si sa ancora poco. Per un’ora e mezza abbiamo staccato il cervello e ci siamo lasciati trasportare in un thriller post-apocalittico non particolarmente complesso o innovativo, ma con una discreta dose di tensione e un’atmosfera che, grazie ai corridoi bui e alla tecnologia in stile vintage, ricorda molto Alien e Atmosfera Zero.
Reedus e Djimon Hounsou interpretano una coppia di tecnici in un futuro imprecisato, dove un conflitto mondiale ha resto inabitabile il suolo terrestre dopo l’impiego di armi chimiche. I due hanno il compito di sorvegliare un bunker che contiene gli ultimi sopravvissuti del genere umano, tra cui scienziati e intellettuali, in stato di ibernazione fino a quando la superficie non sarà nuovamente respirabile. Bauer e Cartwright, in qualità di custodi, eseguono ciclicamente alcuni interventi di manutenzione per salvaguardare la struttura, avendo a che fare con imprevisti di varia natura e con un equipaggiamento datato. Dato che le riserve d’aria sono limitate e che tutti i loro affetti sono morti da tempo, dopo ogni lavoretto tornano nell’ipersonno, trascorrendo i secoli nel tentativo di non impazzire. Cosa non facile, dato che Bauer (Reedus) è spesso pigro e strafottente, mentre Cartwright (Hounsou) ha continue allucinazioni che riguardano sua moglie (Sandrine Holt). Quando un incendio distrugge una delle due cabine di ibernazione, si rende necessaria una spedizione nei meandri del bunker in cerca di un ricambio, e la cosa porterà a inasprire le tensioni tra i tecnici: chi dei due è realmente affidabile? Potrebbero tentare di uccidersi a vicenda? Ma soprattutto, cosa troveranno dietro quella porta a tenuta stagna?
La parabola dove pochi sopravvissuti sono costretti a convivere dopo una catastrofe è abbastanza inflazionata (pensiamo a 10 Cloverfield Lane, Io sono leggenda, Snowpiercer, 28 giorni dopo o Il regno del fuoco), ma fa piacere assistere a una pellicola incentrata sul lento sfacelo psichico dei protagonisti, che vivono come topi in trappola senza una speranza per il domani. Una volta aperte le uscite sigillate veniamo catapultati nei meandri della struttura, tra spazi angusti, montagne di cadaveri e, soprattutto, una riserva d’aria sempre più esigua. Tutto si regge sulle spalle dei due attori, che antepongono la sopravvivenza (quella individuale o collettiva) all’amicizia. Come se stessimo guardando La cosa, dietro ogni anfratto sembra nascondersi una minaccia, quando in realtà l’unico pericolo è costituito dalla paranoia dei personaggi e da un’atmosfera contaminata che potrebbe ucciderli in pochi secondi. Uno scenario agghiacciante dove per salvare la specie umana si rischia di condannare la propria umanità, intesa come capacità di empatia e raziocinio.