di Alessandro Sivieri
“Perché indossi quello stupido costume da coniglio?”
“Perché indossi quello stupido costume da uomo?”
Tra lungometraggi e serie tv (ci sentiamo di nominare It e Stranger Things) spopolano i prodotti audiovisivi che tendono al nostalgico, con il preciso scopo di farci rivivere l’atmosfera degli anni ’80, quelli della musica figa, delle sale giochi e dei videoclip tamarri. Prima di loro, all’inizio del ventunesimo secolo, un film indipendente si è affacciato sulla scena con un obiettivo simile: Donnie Darko, opera cult di Richard Kelly, non ha solo il merito di aver lanciato il talentuoso Jake Gyllenhaal e di aver instillato nel sottoscritto un’insana paura dei conigli giganti. Ha raccontato l’aspetto oscuro degli eighties, relativo alle ipocrisie della società americana, che attua una repressione intellettuale verso gli individui non omologati. In questo caso parliamo di Donnie (Gyllenhaal), giovane studente in cura per problemi psichiatrici. Tra una manciata di pillole, un litigio con la famiglia e provvedimenti disciplinari da parte di insegnanti bigotti, il protagonista conduce un’esistenza defilata, circondato da pochi amici. Sebbene soffra di allucinazioni e sonnambulismo, a essere patologizzata è la sua insofferenza nei confronti di un sistema insensibile e perbenista, oltre all’abitudine di dire sempre quello che pensa. L’unico adulto disposto ad ascoltarlo senza pregiudizi sembra essere Karen (Drew Barrymore), la sua docente di lettere.
Questa atmosfera da teen drama si dirada in poco tempo per approdare al weird e alla fantascienza, quando Donnie fa la conoscenza di Frank, uno sconosciuto con un inquietante costume da coniglio che lo attira fuori casa e gli rivela che entro ventotto giorni avrà luogo l’Apocalisse. Nello stesso istante un gigantesco motore d’aereo si schianta sulla camera di Donnie, tra lo stupore generale.
A questo punto ha inizio un viaggio, o meglio un percorso spirituale, dove il protagonista si renderà conto di essere destinato a salvare il mondo, a costo di dolorosi sacrifici e scelte apparentemente sconnesse tra loro. Riuscirà inoltre ad aprirsi agli altri, aiutando persone in difficoltà e iniziando una relazione con la sua coetanea Gretchen (Jena Malone). La trama arriva a ingannarci, scomunicando ogni illusione di linearità man mano che il finale si avvicina, ed è densa di metafore e concetti come l’esistenza di universi paralleli e paradossi temporali. I fan hanno formulato diverse teorie sul reale significato della storia: è tutta un’allucinazione dovuta alla schizofrenia del protagonista? La maggior parte degli eventi si svolge in una realtà alternativa? I conigli giganti portano sfiga?
Uscita nel 2001 per il mercato home video, abbastanza in sordina, l’opera di Kelly verrà meritatamente riscoperta negli anni successivi grazie al passaparola, tanto da raggiungere le sale nostrane nel 2004. Un film che, nonostante le critiche di qualche pennivendolo o le smorfie dello spettatore disattento, infrange le barriere del tempo, un po’ come i suoi personaggi. Per il sottoscritto si tratta di una tappa fondamentale per ogni cinefilo, un mostro dalle mille facce che riesce a coniugare in modo sorprendente le emozioni adolescenziali e le riflessioni sulla metafisica. È anche lo spaccato di tematiche sempreverdi come il disagio giovanile e l’anticonformismo. Quest’ultimo è il cuore del film: Donnie e il suo amico Frank (a metà tra la guida e l’alter ego) si divertono a confonderci le idee, portandoci al cortocircuito ermeneutico e facendoci chiedere se stiamo assistendo all’introspezione psichica di un ragazzo rifiutato o a un evento sovrannaturale.
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Lo stesso finale, amaro e dalle note criptiche, è un atto di guerra contro quella logica hollywoodiana che pretende film con un happy ending e interpretabili in modo univoco. Ma chi scava a fondo nel cinema ama le sfide e cerca qualcosa in grado di strapparlo dalla sua zona di comfort. Donnie Darko ci rende un po’ schizofrenici, intrappolandoci nel suo universo tangente, dove gioca con i generi e le soluzioni narrative, fino a comunicarci qualcosa di profondo: che la solitudine può essere peggio della morte.
E che se vedete un roditore zombie alto un metro e ottanta, non è un buon segno.