Il ciclo arturiano in un videoclip di Guy Ritchie.
di Alessandro Sivieri
Le imprese del sovrano di Camelot e dei suoi Cavalieri della Tavola Rotonda nutrono il cinema da decenni con alterne fortune, tra un cult come Excalibur di John Boorman e un melenso Lancillotto di Richard Gere ne Il primo cavaliere, oltre all’indimenticabile La spada nella roccia della Disney, con quel personaggione di Merlino. A più di 10 anni dall’ultimo King Arthur, quello con Clive Owen, nasce ciò che all’apparenza è il classico reboot modaiolo: le origini dell’eroe in un passato esteticamente anacronistico, dove i costumi, gli scenari e persino le pettinature hanno poco a che fare con il medioevo. A questa rilettura ultramoderna si affiancano massicce dosi di fantasy, con scene che ricordano le coreografie di 300 e la vena epica de Il Signore degli Anelli. Peccato che, oltre a deviare dal materiale d’origine, questi prequel risentano di una scrittura blanda, dove lo spessore dei personaggi viene offuscato dalle battaglie campali e dall’azione PG-13. Un fato simile travolgerà anche Robin Hood, con un reboot in arrivo dove, accanto all’arciere sbarbatello, ci sarà Ben Mendelsohn a fare lo sceriffo di Nottingham, indossando gli stessi abiti di Rogue One. Gli esiti di tali operazioni sono spesso mediocri, infatti questo film è stato mazziato dalla critica. Il sottoscritto però si tira fuori dal coro, perché a salvare in extremis l’Artù di Charlie Hunnam c’è un piccolo particolare: l’impronta dinamica di Guy Ritchie.
L’ex-marito di Madonna ha un gran talento e nessuno può negarlo, basti vedere Snatch o i due Sherlock Holmes con un Robert Downey Jr. favoloso. In questo risciacquo epico, destinato alle masse di adolescenti, il nostro Ritchie si è ritrovato con una sola possibilità: fare una baracconata, ma con stile. A lasciare perplessi, oltre a un incipit esagerato con re Uther Pendragon (Eric Bana) che stermina da solo un esercito di stregoni, è il taglio iconoclasta della scrittura: Merlino si vede per un paio di secondi, Excalibur è chiamata a stento con il proprio nome e la celebre Tavola Rotonda deve ancora uscire dall’Ikea (con i futuri Cavalieri composti da minoranze etniche). Lo sviluppo è prevedibile, con scene di battaglia da videogame contro un appassito Jude Law. Quest’ultimo è Vortigern, crudele zio di Artù che ha ucciso il fratello per usurparne il trono. Sarebbe un disastro, ma come vi avevo accennato la regia tiene in piedi la baracca, rendendo tollerabili molte pecche. A Ritchie non interessa il tessuto narrativo, perché il suo parco giochi preferito è nel montaggio serrato e nelle inquadrature azzardate.
A compensare una storia priva di mordente e una CGI sotto la media arrivano sequenze con una chiara impronta autoriale, come l’infanzia di Artù tra criminali e prostitute, accompagnata dalle musiche selvagge di Daniel Pemberton. Il ritmo ipercinetico va a toccare anche i dialoghi, come il resoconto di una baruffa con dei Vichinghi, migliorandone notevolmente l’impatto. Con una sceneggiatura più solida avremmo davvero per le mani un reboot moderno e funzionale, e invece gli sforzi registici vengono inevitabilmente dissolti in un percorso sui binari, con uno scontro finale che cerca la meraviglia visiva, quasi fossimo in un gioco tipo God of War. Da mostrofili troviamo consolazione nell’affascinante e sinistra maga di Àstrid Bergès-Frisbey, senza contare qualche creatura come donne-albero, serpenti giganti e megere con i tentacoli. Dato il cocente flop al botteghino è improbabile che vengano prodotti dei sequel, quindi il mio lato ignorante ha versato una lacrimuccia.
Addio, Escalabar… Escansala… Eschizibur…Escansa…
“Excalibur, imbecille!”
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