Gerald Butler porta un po’ sfiga e la famiglia scappa in Groenlandia.
di Alessandro Sivieri
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Nel 2020 un ennesimo film sulla fine del mondo può scontentare parecchi palati, ma noi ci siamo fatti tentare dal faccione di un Gerald Butler lievitato e barbuto, quindi eccoci qui, a parlare della fuga di una famiglia altoborghese da una pioggia fatale di asteroidi. La pellicola di Ric Roman Waugh (Attacco al potere 3) riprende quel filone catastrofico alla 2012 e si concentra sulle dinamiche familiari, come fece Spielberg con il suo La guerra dei mondi. Ahinoi, Greenland non ha la fiera ignoranza del primo e nemmeno la potenza visiva del secondo. Il nostro ex-Leonida torna in un disaster movie a pochi anni da Geostorm, questa volta nei panni di John Garrity, un ingegnere edile con un matrimonio in crisi e un figlio diabetico. Nel dipanarsi della vicenda ricorrono i flashback sul loro passato felice: il pargoletto giocoso, un bacio alla moglie Morena Baccarin, la fattoria del Mulino Bianco. Insomma, il diabete stava per venire a noi.
A smussare gli attriti coniugali giunge la cometa Clarke (in memoria dello scrittore Arthur C. Clarke). Tutti i notiziari ne parlano. Stando alle premesse sembra innocua, ma durante l’avvicinamento comincia a frammentarsi in parti dall’inatteso potenziale distruttivo. Le nazioni del mondo intero comprendono che la vita umana sulla Terra potrebbe estinguersi, insieme a una enorme percentuale delle specie animali e vegetali. Alcune famiglie americane, tra cui quella di Garrity, ricevono un messaggio presidenziale che le invita a recarsi in aeroporto per scampare alla devastazione. La destinazione è a est, nella gelida Groenlandia (avete capito? Il titolo Greenland è un mezzo spoiler!), dove gli yankee avevano costruito dei bunker a prova di bomba atomica già ai tempi della Guerra Fredda.
Hanno inizio le rocambolesche avventure dei Garrity, tra piogge meteoriche in CGI e una camera a mano che nulla aggiunge, nulla toglie. Qualche buona intuizione nella prima parte, con slanci di cinismo dove John si vede costretto a voltare le spalle ai vicini di casa, non importa se adulti o bambini, perché l’invito salvifico è riservato a pochi eletti. La selvaggia logica della Mors tua, vita mea non risparmia nemmeno i cittadini benestanti nelle loro villette a schiera, quando alle feste di compleanno e alla cortesia di facciata si sostituisce la disperazione. La mazzata per i Garrity arriva quando il loro figlio viene respinto dal progetto di evacuazione, poiché diabetico. L’empatia del pubblico verso i genitori viene arginata dalla loro incompetenza: uno scappa in giro a prendere l’insulina e manda in vacca un aereo, l’altra spiffera segreti ai militari scazzati e poi li ricatta emotivamente.
I destini della coppia si dividono e Butler si rivela, in più frangenti, utile quanto un gorilla in un negozio di liquori. Il cinismo che sosteneva l’incipit viene soppiantato dal buonismo e i protagonisti non perdono mai quell’aura di privilegio, avendo a che fare con rapinatori gentili, trafficanti gentili e messicani gentili in autostop. Nel momento in cui John ammazza uno sconosciuto a martellate per tenersi il lasciapassare, il tempo si cristallizza, come quando porti un fucile a una partita di burraco. Ma è l’apocalisse, baby, cosa ti aspettavi? Siamo lontani miglia da Tom Cruise che per proteggere la figlia uccide un pazzoide nella stanza accanto.
Per riaffermare un ottimismo post-pandemico, perfino le ceneri sparse nell’atmosfera si diradano in un battito di ciglia, scongiurando l’inverno nucleare, mentre gli uccellini ci accolgono cinguettando nel cielo. Rimane il peso sullo stomaco di soluzioni narrative abusate, di fughe pirotecniche dai detriti e di un inno all’unità familiare. Se fossimo nella Baccarin, prenderemmo il marito per le orecchie e diremmo “Ok, lasciamo stare le corna, il fatto è che porti sfiga”. E invece no, ci sono i panini da imburrare durante un conto alla rovescia.