Lo stereotipo tra uomo e donna si applica bene al cinema e lo dimostra MANK, film di David Fincher sul dietro le quinte del “film più bello di sempre”: Quarto Potere.
di Cristiano Bolla
Dici Quarto Potere e hai detto Cinema. Non esiste e non dovrebbe esserci appassionato della Settima Arte che ignori questo importante assioma: che c’è un cinema prima e dopo il capolavoro di Orson Welles. Citizen Kane, classe 1941, ha infatti creato un solco nella storia, dando vita ad un nuovo modo di intendere il mezzo e ampliandone le sue smisurate potenzialità. Welles, enfant prodige che ancora oggi è circondato da una possente aura di grandezza ogni volta che viene rappresentato, sfruttò la completa libertà creativa lasciata dalla RKO per cambiare i connotati a regia, messa in scena e soprattutto narrazione del cinema fino a quel momento. Dopo i Lumière e i Griffith, la rivoluzione della Settima Arte è passata da lui: profondità di campo, angolo olandese, narrazione non lineare ma a blocchi frammentari e soggettivi, dal cinema delle origini all’invenzione della ruota, insomma.
L’importanza di Citizen Kane o Quarto Potere lo rende ancora oggi uno dei, se non il film più importante e riuscito della Storia del Cinema. Questo traguardo è stato però raggiunto dopo anni, in controtendenza rispetto alla sua storia produttiva e a quella che è seguita al rilascio del film, boicottato dal magnate dell’editoria William Randolph Hearst, che se la prese abbastanza a male ritenendosi (a ragion veduta) il vero protagonista del film. A renderlo tale, è stata la penna di Herman Jacob Mankiewicz, la cui storia è raccontata dai Fincher in Mank. Un film ha aspettato quasi 30 anni per vedere la luce: scritto dal padre del regista di Seven e arrivato sino al figlio, è in sostanza la “quota Roma” dell’anno della piattaforma di streaming, ossia un film estremamente cinefilo che difficilmente potrà fare breccia nel pubblico generalista.
A essere onesti, anche chi vive di pane e cinema potrebbe aver bisogno di una lunga ripassata agli appunti di università, di rivedere Quarto Potere e studiarsi nuovamente la storia dietro al film. Solo così infatti è possibile cogliere davvero, appieno, ogni riferimento, citazione e “aggancio” del film di Fincher con il film di Welles e ciò che lo circonda. In buona sostanza: Herman Mankiewicz, detto Mank, è stato uno sceneggiatore col senno di poi meno di successo del fratello Joseph (dominatore degli Oscar alla Regia e Sceneggiatura Non Originale nel biennio 1950-51, con Lettera a Tre moglie e Eva contro Eva), l’emblema dell’eterna lotta tra genio assoluto e i demoni dell’alcolismo e del gioco d’azzardo. In mezzo a tutto questo, durante un isolato ricovero da un incidente stradale, ha scritto la prima grande stesura di Quarto Potere. Molto si è discusso su quanto questo capolavoro sia interamente da intestare a Welles e quanta mano invece ci fu di Mank: la storia a posteriori ora sembra concorde che lo sceneggiatore creò la base, tirò fuori il David dal blocco di marmo, mentre il tutto-fare del cinema ne limò i dettagli.
Fincher, riprendendo la storia del padre, porta in scena proprio questo: la storia della scrittura di Quarto Potere e tutto quello che c’è dietro. Questo significa calarsi nella Hollywood delle major e della Grande Depressione che le mise in ginocchio, significa fare i conti con figure come Louis B. Mayer (la seconda M in MGM), il suo produttore Irving Thalberg, il magnate dell’editoria Hearst e l’amante Marion Davies. Questi ultimi due sono stati la base del racconto di Mankiewicz: Hearst è infatti riconosciuto come la persona dietro il cittadino Kane e sono innegabili i parallelismi tra i due, dal Castello pieno di statue all’importanza della figura sul piano politico e di costume americano di quegli anni. Un “omaggio” che è costato una campagna di boicottaggio del film, che incassò poco e alla fine portò anche a casa “solo” un Oscar (sceneggiatura, appunto) su nove candidature. In Mank, il motivo dietro all’astio di Mankiewicz per l’ex amico Hearst è tanto finzionale quanto in Quarto Potere lo è quello dietro alla celebre Rosebud di Kane: serve al film, non alla verità storica.
Qui entriamo nel merito del film (buongiorno, direte: ma la storia dietro alla storia è impossibile da evitare, per questo film). Mank è David Fincher alla massima potenza: chi è abituato ai tempi lunghi dei vari Zodiac o Mindhunter, sa a cosa va incontro, ma in questo bianco e nero magnificamente fotografato da Erik Messerschmidt lo porta all’estremo. E, curiosamente, per farlo riavvolge il nastro del cinema e ripropone gli stilemi, la grana, il tocco propri del cinema anni’40. Mank è un trionfo filologico del cinema su se stesso, non scimmiotta ne si adatta al gusto di oggi, ma per parlare di fatti di 80 anni fa decide di utilizzare lo stesso linguaggio, gioco di luci, stile attoriale e di montaggio. Abbondano le dissolvenze incrociate, le scene brevi e di raccordo: visti di fila, Mank e Citizen Kane sembrano l’uno il backstage dell’altro, girati entrambi negli stessi anni.
La sua natura fatta di trasparenze è evidente anche in altri parallelismi che creano corsi e ricorsi storici su cui si potrebbe parlare all’infinito: in Quarto Potere, Charles Foster Kane dopo aver perso le elezioni esce sul suo Inquirer col titolo “FRAUD AT POOLS!” e l’accusa di brogli dell’avversario; in Mank, buona parte della vicenda poggia le basi sulle fake news che la MGM contribuì a diffondere per minare il candidato Upton Sinclair (sebbene tutta la storia di Shelly Metcalf sia finzionale). Basta pensare a quanto sta succedendo in questo mese con Trump, per chiudere il cerchio e dire che beh, The Donald non ha inventato poi niente di nuovo.
Tutto questo per dire: Mank è un film dall’altissimo tasso cinefilo, sicuramente non pensato per il pubblico generalista, che difficilmente potrà trovare elementi di interesse perché sono troppi i riferimenti, i pregressi, i fatti e i nomi che rendono chiara la storia del film di Fincher. Anche per chi “sa tutto”, però, rischia di essere riconosciuto da un lato come un grandissimo film in tutti i suoi elementi, dalla regia alla recitazione di livello assoluto (enormi Gary Oldman e Amanda Seyfried), ma dall’altro anche come un film un po’ “pesante”, che tarda a salire coi giri del motore. Fincher si prendere il rischio di staccarsi da qualsiasi tecnica di narrazione moderna, ignorando qualsiasi nozione conosciuta sui livelli di attenzione nell’epoca dello streaming e affidandosi completamente all’amore per il cinema, per il lavoro del padre e il racconto di un racconto che ha fatto la storia.
La qualità è innegabile, assoluta, ma un po’ come per Roma di Cuarón, con Mank Netflix si gioca la carta “cinefilia”: grandioso, ma non per tutti o addirittura per pochi. Una recensione lunga, avete ragione, ma come diceva Kane, diretto da Welles e scritto da Mankiewicz: “La vita di un uomo non si può spiegare con una sola parola“. Figuratevi di tutta questa gente messa insieme.