Neo infrange il Bro Code e diventa un nerd paranoico.
di Alessandro Sivieri
*ATTENZIONE: CONTIENE LIEVI SPOILER*
“Noi non siamo qui perché siamo liberi; siamo qui perché non siamo liberi. Di sottrarsi a questo dato di fatto, non c’è ragione.”
“Viviamo in una Matrix” è una frase del complottista medio, un esempio di quanto la saga delle sorelle Wachowski si sia radicata, nel bene e nel male, nella cultura popolare. Opera simbolo del passaggio dall’analogico al digitale, Matrix trova ispirazione in produzioni orientali come Ghost in the Shell e ha portato una ventata di freschezza nel modo di rappresentare l’azione nei film hollywoodiani (fotografia e coreografie), oltre a un cuore pulsante di riflessioni che pescano dalle correnti filosofiche di ogni parte del globo, perfino quelle in apparente antitesi.
Nel film convergono critiche al sistema capitalistico, l’annullamento taoista del sé, la dicotomia tra mente e corpo e quella tra il naturale e l’artificiale, per concludere con un nichilista agente Smith (Hugo Weaving) che denuncia un’esistenza priva del minimo significato e scopo, una realtà dove i sentimenti e il libero arbitrio costituiscono, a suo dire, uno specchietto per le allodole. Il più grande colpo assestato da Neo (Keanu Reeves) alla sua nemesi sarà proprio rispondere “Perché così ho scelto”, rivendicando come propria una facoltà che a Smith è sempre mancata: quella di battersi per qualcun altro, di compiere una scelta, per quanto irrazionale e controproducente possa sembrare a un programma che soppesa le opportunità in base a un algoritmo.
Il retaggio di questa trilogia (la cui qualità effettiva è concentrata nel primo capitolo) non si esaurisce di certo nelle mazzate in bullet time, nelle speculazioni distopiche sul cyberspazio o in una riproposizione tecnologica del mito della caverna di Platone. Matrix è un’epopea sull’autodeterminazione, sulla speranza e sull’amore, qualità che ci rendono splendidamente imperfetti e che sovvertono qualunque tentativo di schematizzazione o automazione ciclica. Non è un caso che anche in Interstellar (o in The Fountain) l’amore sia l’unica forza, insieme alla gravità, in grado di attraversare il tempo, sfuggendo al concetto riduttivo di utilità sociale. Nell’esplosione creativa delle Wachowski c’è anarchia, provocazione, il desiderio di farci assaggiare quella maledetta pillola rossa senza scontentare i ragazzini affamati di un solido action movie.
Al termine di Revolutions tutto sembrava compiuto, ma immaginiamo che la Warner Bros. si svegli dopo quasi 20 anni e dichiari l’intenzione di sviluppare un quarto episodio, con o senza il contributo delle Wachowski. Lilly se ne tira fuori e rimane Lana, la quale riversa in Matrix Resurrections i suoi lutti personali, la sua storia di transizione e un attacco diretto alle major cinematografiche, spesso inclini a salassare i franchise fino a cancellare ogni traccia di originalità. Ne esce uno script atipico (scritto insieme a David Mitchell, autore di Cloud Atlas), sospeso tra il sequel e il reboot, pronto a sovvertire le aspettative del pubblico come se un Rian Johnson indiavolato si fosse infiltrato nel set con un trench in pelle e un paio di occhiali scuri.
In un’ambientazione contemporanea ritroviamo l’invecchiato Keanu Reeves con una acconciatura alla John Wick (diventato nel frattempo il suo feticcio più remunerativo), nei panni di Thomas Anderson, il game designer più famoso del pianeta. Come un fittizio Hideo Kojima, Anderson è un artista fuori dagli schemi che ha donato al mondo i videogame di Matrix e che continua a sperimentare con la sua creatura digitale. Guidato dall’inconscio, il protagonista progetta livelli demo nascosti e dà alla luce degli avatar che gli ricordano vaghi trascorsi. Soffre di depressione, è reduce da un tentato suicidio e passa interminabili pomeriggi con il suo analista, che ha il volto di Neil Patrick Harris (il Barney di How I Met Your Mother).
“Sequel? Non usiamo quella parola qui.”
Mentre la Warner chiede allo studio di mettersi al lavoro su un ennesimo seguito del gioco, raccomandandosi di farcirlo con tonnellate di fan service, Thomas coltiva una passione segreta per Tiffany (Carrie-Anne Moss), donna sposata che incontra ogni giorno in una caffetteria, sulla quale ha basato il personaggio di Trinity. I due sembrano conoscersi da sempre, eppure non si decidono a colmare il vuoto interiore che li separa. Nonostante le pillole blu diligentemente ingurgitate, le allucinazioni si intensificano e la realtà tangibile viene contaminata da frammenti di memorie sconosciute e alterazioni della materia. Specchiandosi, Thomas vede il volto di un’altra persona e pensa di potersi spostare da un palazzo all’altro saltando nel vuoto.
Le sedute con lo psicologo e le suggestioni paranoiche ci spingono a pensare più di una volta che Thomas Anderson sia a tutti gli effetti uno schizofrenico con tendenze autolesioniste, incapace di relazionarsi con gli altri e di condurre una vita normale. La vena malinconica e i ricordi di un altro vissuto non stonerebbero in una qualunque sceneggiatura di Charlie Kaufman, da Synecdoche, New York a Se mi lasci ti cancello. A questo personalissimo delirio metafisico si affianca un’operazione sfacciatamente metacinematografica, dove un team di giovani creativi blatera di bullet time, acrobazie e pistole più grosse. L’accusa mossa da Thomas alla compagnia è di voler banalizzare il franchise, proponendo una infinita fotocopia di ciò che già stato fatto.
La saga di Matrix riflette su se stessa e sul suo impatto culturale, toccando diversi frangenti l’autoparodia. Una mossa che riporta alla mente i recenti capitoli di Assassin’s Creed, dove l’agenzia Abstergo sfrutta la memoria genetica degli Assassini per creare giochi d’avventura con ambientazioni esotiche. L’anonimo giocatore acquisisce il ruolo di un beta tester che, alla fine, scopre gli intrighi dei Templari e si unisce alla ribellione. In fondo l’Animus è simile a una gitarella dentro Matrix, in grado di calarci in un’esistenza simulata e donarci fattezze alternative. L’emblema di questo rimescolamento è il novello Morpheus (Yahya Abdul-Mateen), programma senziente che unisce le caratteristiche di Laurence Fishburne a quelle dell’agente Smith; due figure diametralmente opposte ma con un ruolo importante per la formazione di Neo, il quale ha concepito questo ibrido senza rendersene conto.
I fotogrammi della vecchia trilogia vengono sovrapposti di continuo alle esperienze di Thomas, se non addirittura proiettate sulle pareti, in modo da attenuare il trauma di un secondo risveglio. Prontamente, il protagonista viene salvato da Morpheus 2.0 e dalla giovane Bugs (Jessica Henwick), alla guida di un manipolo di cultori dell’Eletto che hanno violato le regole della rinata Zion pur di incontrare il proprio idolo. L’illusione è crollata e Neo torna nel mondo reale grazie all’affetto dei suoi fan. Le macchine lo avevano intrappolato in un loop per decenni, riducendo le sue imprese a materiale da videogame in perenne riprogettazione. Qui scatta la terza componente di Resurrections, che abbraccia la logica dei seguiti di Pirati dei Caraibi ed espande il lore con un sacco di elementi inediti: diverse fazioni di macchine (alcune amichevoli, altre meno), software con personalità e una roccaforte umana ricostruita da zero. Gli spunti sono interessanti e si ha la sensazione che un solo film non basti a rendergli giustizia.
Il terzo atto racconta la spedizione per liberare Trinity e ci presenta un Eletto lontano dai fasti di un tempo, che ha perso alcuni poteri per guadagnarne altri. Keanu Reeves, reduce dalle incursioni videoludiche di Cyberpunk 2077, si immerge totalmente nella parte ma dimostra i suoi anni e non è sempre credibile a livello fisico. Con tanto di spina dorsale metallica, sembra un pensionato che si aggira per i cantieri di Nuova Zion (chiamata semplicemente IO) in cerca del suo circolo di briscola. Sul piano dell’action era difficile replicare le innovazioni del primo film e le sequenze rimangono nello standard delle produzioni odierne, che pure devono tanto alla saga. Gli inserti nostalgici allungano sensibilmente il montaggio e rallentano il ritmo, come se Lana Wachowski vivesse con l’ansia di autocitarsi e di sbatterci in faccia i sentimenti riscoperti dai personaggi invece di lasciare campo libero alla loro espressività.
“Perché, signora Wachowski, perché persiste?!”
Lo Smith ridisegnato con le sembianze di Jonathan Groff è più ironico e smart rispetto alla versione di Hugo Weaving, operando come un agente del caos e facendo da deus ex machina prima di dileguarsi frettolosamente. Un vero peccato, perché l’attore azzecca il tono del suo personaggio e dimostra una familiare minacciosità quando la regia ne sente il bisogno. Meno carismatico l’analista di Neil Patrick Harris, il quale tenta di distaccarsi dal suo precedessore (l’Architetto) e cade in una verbosità assai più povera di contenuti. Il vero fastidio giunge con un cencioso Merovingio di Lambert Wilson, che vomita insulti in francese, critica le logiche dell’intrattenimento di massa e guida una combriccola di Bimbi Sperduti pesantemente armati; un’overdose di commedia decisamente evitabile.
La pellicola di Lana Wachowski chiede un poderoso sforzo per farsi apprezzare e si pone come la sintesi di tre grossi blocchi di idee: il dramma intimo e sentimentale, il world building sotto steroidi e la spinta dissacratoria; proprio su quest’ultima l’acceleratore viene schiacciato a tavoletta, rischiando di far schiantare l’intero carrozzone. Liberandosi dai condizionamenti, proprio come l’Eletto, ci si può godere un quarto episodio che gioca con la sua ingombrante eredità, ponendo quesiti quantomai attuali su scelta e predestinazione, su dubbio e fede, sul sé ideale e quello percepito. In effetti Resurrections traccia un percorso abbastanza distante dai blockbuster a cui siamo abituati, il problema è la spasmodica ricerca di un alibi (l’autoconsapevolezza) per questa sua inversione di rotta. Neo non saprà più volare, ma affronta alla grande la sua crisi di mezza età.
“Schiva queste, Warner Bros.!”