L’ira molesta di Achille, il cugino Patroclo e quel lurido elfo di Paride.
di Alessandro Sivieri
“Se invece vai a Troia, sarai coperto di gloria, si scriveranno poemi sulle tue vittorie nei secoli a venire, il mondo intero ricorderà il tuo nome. Ma se tu vai a Troia non tornerai più, perché la tua gloria è legata fatalmente alla tua distruzione… e io non ti vedrò più.”
Teti manda Achille in fila alle Poste
L’avrete già notato altrove: abbiamo un insolito feticismo per Achille al cellulare. E dato che parliamo di un poema omerico passato al setaccio da Hollywood, non sarebbe nemmeno l’elemento più incongruente. Dovete sapere che nel lontano 2004 la Warner Bros. ha rispolverato l’Iliade e ci ha offerto un approdo degli achei che ricorda spudoratamente l’arrivo degli alleati a Omaha Beach, con tanto di palizzate e ostacoli piazzati lungo la spiaggia. Che volete farci, gli americani hanno la sindrome dello sbarco. E ci viene in mente Brad Pitt, durante la pausa sigaretta, che si aggiusta i calzari e telefona a Omero nell’Ade (chiamata a carico del destinatario) per dirgli “Ascolta, sei sicuro che non ti incazzi? Sicuro sicuro? Guarda che abbiamo cambiato due cosette, eh… Patroclo è mio cugino, Agamennone un vecchio rattuso, Menelao ci lascia le penne… non ti rigirare nella tomba che ti ho pure messo due monetine sugli occhi. Anzi, quella a destra era un gettone del carrello”.
“Date una ricarica Iliad a quel troiano!”
Tutto ebbe inizio dal rifiuto di Terry Gilliam (dopo aver letto cinque pagine del copione) e Christopher Nolan. La direzione venne perciò affidata a Wolfgang Petersen, regista di origini teutoniche conosciuto per U-Boot 96 e La storia infinita, e che dalla fine degli anni ’90 si era incastrato alla perfezione nelle logiche produttive a stelle e strisce. La sfida era adattare per le platee quello che viene considerato, insieme all’Odissea e all’Eneide, il più grande poema epico a noi pervenuto. Ad affiancarlo nella sceneggiatura troviamo David Benioff, autore de La 25ª ora di Spike Lee e pronto a diventare, qualche anno più in là, una delle menti principali dietro alla serie Game of Thrones.
Game of Troy: Achilles is coming
L’esperienza in campo e un budget sui 180 milioni di dollari vanno a gettare le fondamenta di un kolossal a base di sandali e sabbia che, com’era prevedibile, si discosta dal racconto originale per una miriade di dettagli storici, intrecci narrativi e scelte stilistiche. Embè, cosa vi aspettavate? La fedeltà non abita certo qui, mentre gli apollinei lombi di Brad Pitt occupano una buona dose di inquadrature. La star ammise più volte il suo pentimento per la pellicola, alla quale partecipò perché doveva lavorare.
Lo stesso mito omerico viene costruito basandosi su fatti presumibilmente accaduti, ovvero la guerra di Troia, le cui rovine vennero scoperte dall’archeologo Heinrich Schliemann nel 1871. Molti ricercatori affermano che l’Iliade raggruppi in un unico conflitto diversi assedi ed episodi bellici della civiltà micenea. Omero tesse una vicenda corale dove si intrecciano la superbia, l’eroismo, la vendetta, il senso del dovere e il rapporto tra uomini e divinità. Queste ultime nella mitologia greca hanno tratti antropomorfi, ovvero condividono i difetti e le emozioni degli esseri umani, influenzandone spesso il destino. Tutto ruota intorno al concetto di hybris, inteso come la tracotanza, il superamento di qualunque limite per perseguire le proprie ambizioni, ponendosi al livello degli dèi (i quali finiscono per punire l’eroe insolente, in un atto consequenziale denominato némesis).
L’Iliade trabocca di episodi di hybris: Paride rapisce Elena, regina di Sparta, facendo un torto a re Menelao; Agamennone sottrae la schiava Briseide (inserita nel film come interesse amoroso) ad Achille, oltraggiando il condottiero acheo; Patroclo combatte sotto le mentite spoglie di Achille e ci rimette la pelle. Tra patrie distrutte, pestilenze e frecciate nel tallone, gli dèi sanno sempre come rimettere al suo posto chi non distingue più tra la grandezza e l’avidità smodata (di potere, di gloria, di piaceri). L’epopea omerica non è solo un Avengers: Infinity War dell’antica Grecia, dove guerrieri invincibili ed emissari dell’Olimpo si riempiono di mazzate, ma è una parabola sulle sofferenze umane, sull’invidia, sull’impulsività e sul risvolto tragico delle imprese eroiche.
No Paris, no party
Il film di Petersen mantiene l’ossatura della trama originale, seppure la componente divina, con retroscena annessi, venga esclusa dallo script, a cominciare dal prologo sul monte Olimpo: ecco che dunque la bella Elena (Diane Kruger) si invaghisce del principe troiano Paride (Orlando Bloom) e fugge con lui, lasciandosi alle spalle un matrimonio infelice con il re di Sparta Menelao (Brendan Gleeson). Nel poema omerico era la dea Afrodite a far sì che Elena si innamorasse di Paride, il quale la rapiva senza troppi problemi. La fuga degli amanti fa adirare Menelao, che fornisce al fratellone Agamennone (Brian Cox, affettuoso padre ne La 25ª ora) un pretesto per guidare tutti i sovrani della Grecia alla conquista di Troia.
Dall’altra parte della barricata Ettore (Eric Bana), il fratellone di Paride, non è certo felice per la crisi diplomatica provocata dall’esodo degli amanti e si prepara alla guerra. Un conflitto al quale parteciperà Achille (Brad Pitt), un combattente talmente abile da sembrare un semidio agli occhi degli achei. Si dice che nessun mortale sia in grado di sconfiggerlo e l’assalto a Troia può rappresentare la sua impresa più leggendaria… sempre che una bella sacerdotessa, un gran giramento di palle e una frecciata a tradimento non complichino le cose.
L’amore spontaneo tra Paride ed Elena (un alibi per le mire espansionistiche altrui) può sembrare uno scontato assist al politicamente corretto, eppure si rivela, insieme alla marginalizzazione dell’aspetto divino, una precisa scelta atta a creare un intreccio compatto, privo di elementi superflui. I luoghi, le battaglie e i personaggi sono ispirati alla controparte classica e vivono di vita propria, in un blockbuster che privilegia la dimensione umana e lascia all’immaginazione le scaramucce tra gli abitanti dell’Olimpo (i successivi Scontro tra titani e Immortals prenderanno una piega differente).
“One does not simply walk into Troy.”
È una lezione di storia antica? Grande Giove, no! È un ripasso per l’interrogazione di epica? Meglio non provarci, a meno che non vogliate sfidare a singolar tenzone il docente. È una visione commerciale della guerra troiana, dal ritmo solido, con una scrittura lineare e protagonisti di ambo le fazioni in grado di suscitare l’empatia dello spettatore. Questo cavallo di legno, concepito da quel geniaccio di Ulisse (Sean Bean, il futuro Ned Stark), contiene più sostanza di quel che sembra. Allacciate i calzari e analizziamone la struttura.
LA CONDENSAZIONE NARRATIVA
Il metro cinematografico ci fa percepire che dalla fuga di Elena alla caduta di Troia passino poche settimane, specie se teniamo conto dell’evoluzione psicologica dei personaggi (il colpo di fulmine di Briseide, l’impazienza di Patroclo, Elena che inizia a pentirsi). Secondo l’Iliade il conflitto ha una durata di circa dieci anni, precisando che il poema si concentra su 51 giorni durante il decimo e ultimo anno (il grosso dell’azione si verifica in un periodo ancora più esiguo) e che si focalizza sull’ira del Pelide Achille; quest’ultimo, più che un sentimento, è il tema portante dell’opera.
Se la pellicola fallisce nel rispettare il calendario bellico, di certo ne sintetizza la portata epica, accompagnandola con una buona dose di fendenti e carni al vento, in modo da intercettare i gusti del pubblico generalista. Laddove mancano le macchinazioni divine si lascia spazio alle umanissime motivazioni dei protagonisti, divisi tra le passioni personali e le esigenze della diplomazia. Troy assume le connotazioni temporali di una guerra lampo, di uno scontro sanguinoso che scaturisce dall’ambizione dei potenti, pronti ad approfittarsi della volubilità giovanile.
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Personaggi secondari come Briseide vengono portati in primo piano e caricati di una serie di ruoli che nel poema erano divisi tra più figure (la principessa troiana Polissena e la sacerdotessa Cassandra). Altri, in primis Agamennone e Aiace Telamonio, vengono ricondotti tout court ad archetipi funzionali alle produzioni del cinema di massa (l’anziano capo lascivo, il gigante spaccateste). Questa Iliade farcita di pettorali e melodramma perde punti in complessità e trattiene dalla base letteraria solo ciò che fa comodo alla messa in scena. Allora perché non gridare all’oltraggio in seduta plenaria? Pericolo scampato, grazie al cast e ai piccoli accorgimenti di scrittura di un Benioff che non è certamente un oplita qualunque.
IL LATO UMANO
Nel poema, Achille ed Ettore si dividono equamente il ruolo di protagonista, aspetto che viene mantenuto nel lungometraggio, unitamente alle loro differenze caratteriali: il primo, consapevole della sua forza e della sua natura semidivina, combatte con disinvoltura ed è impulsivo nelle decisioni, se non addirittura capriccioso. A un primo esame il personaggio di Brad Pitt è un eroe bidimensionale, dal fisico statuario e pronto a sedurre la prigioniera di turno (la quale sviluppa in breve la sindrome di Stoccolma), ma qua e là emergono i fattori che fanno di questo Achille un personaggio interessante: come nel poema, è consapevole che la gloria eterna ha un costo, ovvero la morte precoce, preferibile a una vecchiaia anonima e, dal suo punto di vista, disonorevole.
Disprezza l’oligarchia e i potenti, sempre pronti a mandare al macello migliaia di innocenti pur di accumulare ricchezze. Combatte solo per se stesso, eppure vi è una ristretta cerchia di persone che rispetta profondamente e per le quali darebbe tutto, tra cui i suoi fedeli Mirmidoni e il cugino Patroclo (Garrett Hedlund), che nell’universo omerico corrisponde al suo interesse amoroso. Il declassamento di Patroclo a giovane e inesperto consanguineo può sembrare una deviazione conservatrice, atta a preservare la rigida eterosessualità dei kolossal machisti, e da un lato è senz’altro così. Ragionando sullo storytelling, Patroclo è un espediente che consente ad Achille di mostrare qualche sprazzo di saggezza e responsabilità, prendendosi cura di un ragazzo che vive sotto la sua protezione e che vorrebbe a tutti i costi imitarne le gesta.
Pensavo fosse amore, invece era una biga
Il sentimento amoroso per Briseide, nato in circostanze casuali, porta alla luce l’autentica personalità di Achille, insieme a un intimo desiderio di pace che per qualche attimo sembra farlo desistere dalle proprie ambizioni. Oltre alle chiappe abbronzate (per la gioia di una fetta di pubblico) viene esposta la sua visione del mondo e in particolare degli dèi: egoisti, distanti, addirittura invidiosi della nostra mortalità; per quanto breve, l’esistenza umana rende ogni giorno unico e una persona normale raggiunge un picco di bellezza (come Briseide, a detta di Achille stesso) che non si ripeterà mai più. Anarchico, anticonformista, talvolta romantico, Achille sa infine essere spietato, qualità che lo avvicina al concetto di antieroe. Al di là delle centinaia di anonimi troiani massacrati, sarà il principe Ettore a mettere alla prova il senso etico del Pelide.
Il co-protagonista di Eric Bana incarna le debolezze e la rettitudine di un eroe prettamente umano: maturo, affezionato alla sua famiglia e alla sua gente, è riluttante ad affrontare gli invasori in campo aperto ma, quando è tempo di difendersi, non si tira certo indietro. Lontano dalla spavalderia di Achille, Ettore è pieno di dubbi e mette in discussione qualunque cosa, a partire da se stesso. Non fa mancare il suo sostegno al fratello Paride, pur disapprovando la fuga avventata con Elena. La versione omerica è più volte influenzata dagli dèi (come del resto il fratellino), specie quando compie tre giri completi intorno alle mura della città prima di decidersi ad affrontare il suo arcinemico e andare incontro al suo destino.
Il destino, manco a dirlo, è cadere in nome della sua patria, diventando vittima della sete di vendetta altrui. Perfino chi non conosce la base letteraria si rende conto che, per quanto il principe troiano sia esperto, non c’è partita. Achille è di un altro pianeta ed Ettore, consapevole di non poter vincere, lo affronta comunque. Un ideale che piaceva molto ai greci, quello di sfidare il fato con coraggio, per quanto il sacrificio possa essere insensato. Ettore condivide con il Pelide le perplessità riguardo l’intervento divino, chiedendosi ironicamente di quante armate disponga Apollo per venire in soccorso di Troia. In effetti qualche rinforzo farebbe comodo, mentre non si può dire lo stesso di ulteriori tipologie di prodigi grotteschi e poco filmabili, in primis Afrodite che trasporta Paride nel suo talamo per strapparlo al duello con Menelao.
“Ahia, ma sei scemo?!”
Proprio il principe minore di Orlando Bloom subisce un ridimensionamento rispetto a Omero, dove partiva come pastore per poi essere riconosciuto da Priamo come figlio legittimo, tornando a Troia in un corteo trionfale. Sebbene non sia di indole eroica, il Paride mitologico dimostra un maggiore grado di astuzia (il compiacimento di Afrodite, il rapimento di Elena pianificato ancora prima di arrivare a Sparta) e di carisma. Una volta imbracciato l’arco per vendicare il fratellone, l’attore ritrova il piglio alla Legolas e scocca la freccia fatale al nerboruto Pitt.
Il cast di contorno rafforza i dialoghi grazie a una nutrita presenza di caratteristi: l’Ulisse di Sean Bean – che a quanto pare era coinvolto nei piani per uno spin-off – è esattamente quello che ci aspetteremmo, un personaggio acuto e dalla risposta pronta, che con i suoi trucchi convince Achille a unirsi alla spedizione e trova infine uno stratagemma per espugnare Troia. Il Menelao di Brendan Gleeson, spalla di Mel Gibson in Braveheart, si mostra irascibile e spietato quanto basta da farci provare pena per il povero Paride, deciso ad affrontarlo. Orgoglioso ed esageratamente fiducioso nei favori divini, il Priamo del vetusto Peter O’Toole si renderà conto troppo tardi di quanto la salvezza dei figli sia più importante dell’onore. Lawrence di Troia, con la sua austerità, fa da perfetto contraltare al giocherellone Agamennone, un Brian Cox che oltre a monopolizzare l’astio del pubblico (e di Achille) regala qualche attimo da commedia.
I due schieramenti non rispecchiano appieno il materiale d’origine: mancano pezzi grossi come Diomede, mentre Enea, che nel poema era un guerriero maturo (forse il miglior troiano dopo Ettore) viene riscritto come un ragazzino sulle cui spalle Paride pone il destino del suo popolo. Aiace e Menelao (più nobile e meno stronzo del personaggio di Gleeson) non vengono uccisi da Ettore, il quale ha un evidente bisogno di accumulare Punti Eroe in vista della boss fight con Achille. Rendiamo giustizia anche allo stratega Agamennone, il quale non viene freddato in piena fase di molestia a Briseide. Figure femminili chiave come Ecuba spariscono dai radar, in favore di un’espansione dell’Elena di Diane Kruger, la quale a un certo punto si pente della sua scelta e vorrebbe fare ritorno in patria per interrompere il conflitto. Passati in rassegna i mortali, torniamo agli altri grandi assenti: i rancorosi figli di Zeus.
LA SUPERSTIZIONE
Nel primo atto, l’anziana Teti (Julie Christie) profetizza al figlio Achille la morte in battaglia, eppure non viene specificato se la donna sia una nereide (ninfa dei mari) o sia solo dotata di grande saggezza. Lo svolgimento della guerra, dicevamo, viene scandito da scelte e motivazioni che sono puramente umane, ma tra queste si ravvisa il timore di punizioni divine o la ricerca del favore celeste. Le scelte tattiche di Priamo sono fortemente ancorate al culto di Apollo, il quale viene invece ignorato da Ettore e vilipeso da Achille. Il Pelide ordina ai suoi uomini di saccheggiare il tempio di Apollo, tiene la sacerdotessa Briseide come ostaggio (in vista di un avanzamento di carriera come amante) e decapita una statua del dio.
Non è l’azione diretta degli dèi a influenzare il conflitto, quanto l’immagine che gli umani hanno di essi. Nello scambio di vedute con Briseide, Achille non nega in toto l’esistenza delle divinità, esponendo di fatto la direzione intrapresa dalla sceneggiatura: c’è una possibilità che gli inquilini dell’Olimpo esistano, e se esistono sono di certo degli egoisti, addirittura invidiosi della nostra mortalità, una caratteristica che rende unica e irripetibile la vita di ognuno. In spregio alle sue presunte origini semidivine, il Pelide glorifica la brevità della nostra permanenza sulla Terra, così come Ettore tenta di mettere in guardia il padre dalle superstizioni e dalle decisioni errate che ne conseguono.
Ci si collega perciò al relativismo gnoseologico (la conoscenza basata su criteri unicamente soggettivi) e in una certa misura a quello etico (i valori morali condizionati dall’ambiente sociale, politico e culturale dell’individuo) per lasciare i protagonisti in balìa delle incertezze e dei desideri sfrenati. Nel caso di Achille, l’amore per Briseide è il fattore che spinge inconsciamente l’eroe a realizzare la profezia della madre, pur senza il fine della gloria eterna. Di fronte alla love story hollywoodiana non c’è tallone che tenga, ed ecco che questo Achille subisce il proprio destino, animato da intenzioni un filino diverse rispetto al canone omerico. Il suo percorso di crescita è adeguato al contesto filmico e ai personaggi secondari che gli si modellano intorno, spingendolo a riflettere su ciò che vuole veramente.
IL DESIGN
Salvate il soldato Patroclo
Deluso il filologo che alberga in noi, resta l’occhio da spettatore che vuole giustamente la sua parte e che non si limita ad ammirare un Brad Pitt con sguardo fiero e mascella volitiva. Complice qualche aiutino digitale, la fotografia riesce a rendere la scala immensa di questo conflitto e delle parti coinvolte, da una panoramica della flotta degli achei in mare alle imponenti mura di Troia che riempiono lentamente lo schermo (tra le location troviamo Malta, il Marocco e il Messico). Campi lunghi delle sequenze di battaglia ci fanno intuire che la regia ha imparato molto dall’epica visiva de Il Signore degli Anelli e ancora prima da Braveheart, pellicole che sottolineano la fase di schieramento delle armate per esasperare la tensione e dare un’idea della posta in gioco.
Nell’ambito della costumistica, il lavoro eclettico di Bob Ringwood ha portato a una candidatura ai Premi Oscar e si dimostra efficace nel catapultarci in un’epoca remota, oltre a evidenziare le differenze culturali tra gli achei e i troiani. Nella monumentale città di Ettore e Priamo, i cittadini indossano colori sfarzosi e monili di stampo orientale, mentre accolgono l’ingresso del cavallo con balli tradizionali che non stonerebbero in un raduno folkloristico sardo. L’abbigliamento e l’adorazione del dio Sole li fanno sembrare, analogamente a Teti raccoglitrice di conchiglie, una congrega di hippie marittimi. Più rozzi e romanizzati gli achei, fatto salvo Brad Pitt, che una volta liberatosi dell’elmo e degli stivali da motociclista sfoggia una specie di kimono nella sua tenda da campo decorata con tappeti e legni intrecciati.
Nulla di storicamente attendibile in questa messa in scena, che risponde alla logica cinematografica di raccogliere quanti più elementi stilistici e architettonici dall’aria esotica e di fonderli per creare un’immagine dell’antica Grecia in grado di affascinare il pubblico statunitense. Spesso ci facciamo un’idea dei popoli antichi (o meglio dei racconti mitologici) viaggiando con la fantasia e prendendo in prestito frammenti iconografici del reale che consideriamo lontani, misteriosi, estranei, per poi miscelarli in qualcosa di nuovo. Da questo punto di vista, il comparto artistico di Troy fa un’eccellente operazione di sintesi multietnica.
LE COREOGRAFIE
Abbiamo speso parecchie righe per gli amori e la teologia antica, rischiando di trascurare quello che è forse il vero punto di forza del film, ovvero le mazzate. Tralasciando le scene di massa, dove i Mirmidoni improvvisano un prototipo di formazione a testuggine, sono i duelli tra gli eroi a convogliare tonnellate di pathos: quando Paride sta per affrontare Menelao siamo già a conoscenza del divario fisico tra i due, ma la soggettiva del principe troiano fa presagire la tragedia imminente ancora prima che le spade si incrocino. Brendan Gleeson appare sempre più imponente e assetato di sangue, quasi un’entità mostruosa che fa apparire Orlando Bloom gracile e inesperto. Il combattimento è dolorosamente a senso unico, con Menelao che gioca al gatto col topo, dando modo a Ettore di esibire la sua enorme abilità quando interviene in extremis per salvare la vita al fratellino.
Infine è nella resa dei conti tra Ettore e Achille che assistiamo a un momento da grande cinema, supportato dalla colonna sonora tribale di James Horner (la quale scandisce le mosse dei contendenti e amplifica la tensione). Un breve scambio di battute ci fa capire quanto Achille non sia disposto a ragionare e quanto Ettore, pur riluttante, voglia chiudere la questione una volta per tutte. Il duello ha inizio e beneficia di una regia sapiente che, unitamente a due attori in piena sintonia, illustra la natura dei personaggi attraverso il linguaggio del corpo. Ritorniamo alla famosa regola dello Show, don’t tell, cioè raccontare attraverso l’azione.
Eric Bana e Brad Pitt non vollero controfigure per la scena, allenandosi per giorni sotto un sole cocente. I due interpreti promisero di risarcirsi a vicenda con una cifra simbolica per ogni colpo involontario che fosse andato a segno durante le riprese: cinquanta dollari per quelli leggeri e cento per quelli più seri. Ironicamente, Pitt dovette risarcire Bana con ben 750 dollari, mentre l’altro non sborsò nemmeno un centesimo, prendendosi invece una buona dose di botte, un po’ come il suo personaggio.
Gli stili di combattimento non sono verosimili per le fonti storiche di quel tempo, eppure ci dicono tutto dei duellanti: Achille ostenta più che mai i suoi attributi sovrannaturali, muovendosi in maniera imprevedibile e attaccando da angolazioni insolite. Dai salti con la lancia alle manovre con lo scudo, la creatività nello scontro è un emblema della sua sicurezza. Peccato che l’avversario sia il più ostico mai affrontato dal Pelide: Ettore è senz’altro in svantaggio, ma lotta con grande flessibilità e competenza tecnica, portando Achille ad avvertire un senso di fatica per la prima volta in vita sua.
Purtroppo il principe troiano rimane per primo senza un briciolo di stamina e finisce per scoprirsi al colpo fatale di Achille, che fino a quell’attimo si era preso il suo tempo per godersi la vendetta. Senza tirare in ballo la conoscenza dell’Iliade, nemmeno lo spettatore più ingenuo confida in una vittoria di Ettore, eppure parteggia facilmente per quest’ultimo, il più realistico tra i due, in grado di tenere testa ad Achille e sfruttarne l’arroganza a proprio vantaggio. L’epilogo è ineluttabile e la sensazione è quella di aver assistito a una danza fatale, dove a morire è il personaggio migliore del film, circostanza che fa guadagnare al Pelide delle sfumature da villain.
LA FEBBRE DA CAVALLO
Il talento di Mr. Jolie
Potremmo affermare, con un certo grado di cinismo, che il genio omerico venga frullato dalla Warner Bros. e trasformato in una narrazione commerciale, digeribile dai ragazzini casinisti e dalle loro mamme ansiose di rifarsi gli occhi. Scomponendolo nelle sue parti essenziali, il nostro giudizio diventa più indulgente: questo “cavallo di Troia” si fregia della sua nomea per darci in pasto un’opera che a livello filmico è valida, rimanendo due spanne sopra a prodotti successivi che intraprenderanno la strada caciarona del peplum. Il suo difetto è l’alto rischio di portare i grecisti sull’orlo di una crisi di nervi, nel caso ne fraintendessero gli scopi. Se davvero vi piacciono i classici, la sincope arriverà quando Orlando Bloom consegnerà a un imberbe Enea la Excalibur troiana di turno. Durante i credits vorrete investire Benioff e Petersen con una biga, ma Peter O’Toole si presenterà in accappatoio per invocare la vostra misericordia e informarvi che no, questa volta Sean Bean non muore, e allora capirete che chiudere un occhio su un prodotto di intrattenimento non significa per forza giocare al ribasso.
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