Recensione del nuovo film di Paul Thomas Anderson con protagonisti Alana Haim e Cooper Hoffman.
di Cristina Caleffi
Dopo la tossicità delle relazioni e i giochi di potere visti ne Il Filo Nascosto, Paul Thomas Anderson prosegue la sua ricerca filmica continuando a tessere un legame con tutta la sua cinematografia. In questo nuovo lavoro infatti possiamo trovare diversi collegamenti dal punto di vista delle tematiche e di tutto il mostrato nel diegetico con le sue precedenti pellicole, mettendo in gioco se stesso come un infinito racconto che viene narrato in diverse storie.
Tornano gli anni settanta, enfatizzati grazie all’utilizzo di un girato in 70mm, e subito ci balzano alla mente le atmosfere del suo precedente lavoro fatto con Vizio di Forma, e analogamente al C’era una volta a Hollywood di Tarantino viene rimarcato il senso di nostalgia nei confronti di un certo periodo storico (in particolare il passaggio tra vecchia e New Hollywood) che condisce uno spazio fatto di città e luoghi della memoria. Nello specifico ci si addentra nel passato del regista, che ricorda con nostalgia la sua infanzia trascorsa a San Fernando Valley, città protagonista del film stesso.
Il ricordo di un’epoca viene raccontato attraverso una relazione: l’incontro tra i due protagonisti coinvolge, fin dal primo dialogo, lo spettatore in un mix di spensieratezza e sottolineature che il regista effettua per caratterizzare al meglio la loro psicologia, l’inizio e il successivo sviluppo della loro relazione. Ciò che risalta principalmente dei due amanti è la loro maturità. Pur avendo una giovane età, essi sono inseriti in un contesto molto adulto, ma che ai loro occhi appare più infantile. I personaggi che li circondano sono invece macchiettistici e servono appunto per far risaltare quella giovinezza matura che traspare da Alana e Gary.
Un elemento portante di questa pellicola è sicuramente l’assurdità, che a differenza di alcuni precedenti lavori di Anderson (come il già citato Vizio di Forma) serve per alleggerire il racconto e far risaltare i sentimenti più credibili dei due protagonisti, che si trovano a interagire con realtà e personaggi (come quello di Bradley Cooper o di Sean Penn) totalmente fuori controllo.
Il titolo di Licorice Pizza si riferisce a una catena di negozi di dischi che non esiste più, ponendosi come un ulteriore riferimento nostalgico a una realtà appartenente alla giovinezza dell’autore e desiderosa di confrontarsi con la contemporaneità.
Il film è in grado di fornire una chiave di lettura meta-cinematografica sia sulla trama sia su ciò che rappresenta nella sua essenza: dal momento che siamo in un periodo di crisi economica, in particolare viene fatto riferimento alla crisi del petrolio, che è un materiale utilizzato per realizzare i vinili, e con questo scenario Anderson vuole parlare del contemporaneo e della crisi del Cinema. Si esprime in modo analogo la mancanza stessa di materie prime in questo passaggio contemporaneo dal supporto fisico alla trasformazione digitale.
Ma il gentile lettore mostrifero non pensi che questo scenario di crisi suggerisca una visione decadente della pellicola, anzi, i personaggi sembrano ridere della situazione e vivere con leggerezza e trasporto le difficoltà di un periodo storico, oltre a quelle legate alla loro crescita personale. La percezione leggera della situazione socio-economica viene raccontata anche dal punto di vista professionale, dove le aspirazioni dei due protagonisti non vengono vissute in modo ossessivo e racchiuse in un “sogno americano” drammatico. La vita viene presa per quella che è, senza sovraccaricarsi di pressioni che appesantiscano la loro esistenza e la visione stessa del film.
La leggerezza della vita viene però vissuta con profondità e con meno sguardo superficiale. Non si ha l’impressione di voler raggiungere i propri scopi con avidità e arrivismo, ma si avverte una purezza caratteristica della loro giovane età e, nel caso specifico, il desiderio di vivere la loro relazione in equilibrio tra amore e amicizia, traendone spunti per costruire la propria personalità, in un mondo che vorrebbe portarli nella crisi e o nell’esagerazione. La scelta del cast è azzeccata, i due attori protagonisti sono praticamente debuttanti e Cooper Hoffman diviene anche omaggio alla figura del padre Philip, soprattutto nella sua sequenza di presentazione, ma anche grazie a dei parallelismi nel rapporto tra il personaggio interpretato dal padre e quello di Joaquin Phoenix in The Master.
Il legame dei personaggi viene espresso anche a livello fotografico, dal momento che ci troviamo di fronte dei toni caldi delle inquadrature che rappresentano un’estate infinita, all’interno di una suggestiva dilatazione del tempo, proprio come il legame tra i due protagonisti, il quale non sembra esaurirsi mai. Nei film di Anderson la forma è sempre coerente con il contenuto e questa pellicola ne è un’ulteriore prova.
In questa recensione abbiamo creato diversi collegamenti con altri film del regista e ce ne sarebbero altrettanti da mettere in risalto, come le atmosfere di Boogie Nights, ma probabilmente il più azzeccato potrebbe essere quello nei confronti di Ubriaco d’Amore, dove il sentimento era inglobante per i personaggi, mentre in questo caso sussiste la logica del “vivere il momento” con leggerezza, senza dimenticare la continuità e la passione. Licorice Pizza è un gran film corale che si perde nelle assurdità del periodo, ma si ritrova nella spigliatezza e nella personalità di personaggi che sanno essere specchio dell’intimità del regista.