KINGDOM OF THE PLANET OF THE APES – Scimmie con grossi uccelli

La nuova trilogia che vuole arrivare dove osano le aquile.

di Alessandro Sivieri

scimmia gigante monkey island videogame

“Ho parlato con scimmie più educate di te” era una frase top dei duelli di insulti di Guybrush Threepwood ed era pure un’offesa di classe. L’allenatore de Le riserve invece se ne usciva con “Le scimmie che si lanciano merda allo zoo sono più organizzate di questo cesso”. Ecco, basta scandagliare un po’ di cultura pop e siamo già a 2-0 in favore dei primati, cari Homo Sapiens con manie di grandezza. Questo vi fa capire che non solo potreste trovare più umanità in un orango che in un pirla qualunque che vi taglia la strada, ma che le scimmie servono a parlare di noi. Anzi, gli animali antropomorfizzati vengono utilizzati nelle opere di finzione per veicolarci dei messaggi, per guardarci “da fuori” ed evidenziare le nostre contraddizioni.

charlton heston in gabbia pianeta delle scimmie

A quegli istinti che, per quanto violenti, fanno parte della natura, vengono affiancati pensieri complessi e caratteristiche umane come l’invidia, l’ambizione, la vendetta, la politica, l’avidità. Il pianeta delle scimmie con Charlton Heston, basato sul romanzo di Pierre Boulle, ci presentava un mondo post-apocalittico dove la civiltà dominante non è più composta da esseri umani (regrediti a uno stadio primitivo) ma da scimmie altamente intelligenti – dette Simius Sapiens – che ci disprezzano e ci rinchiudono in gabbia.

pianeta delle scimmie charlton heston fucile

Le implicazioni etiche della saga non mancano di coinvolgere anche lo spettatore più spassionato: con la progressione tecnologica abbiamo sfruttato la Terra a nostro piacimento, devastando interi ecosistemi, mentre gli animali sono stati cacciati, esposti negli zoo e sfruttati per la sperimentazione; un destino condiviso dai vari gorilla, scimpanzé e oranghi, con i quali abbiamo degli antenati in comune. La nostra permanenza al vertice della catena alimentare ha aumentato il divario tra dominante e dominato, tra una civiltà industriale che dispone delle risorse a suo piacimento e una parte consistente di flora e fauna che ne subisce le conseguenze. Solo in tempi recenti l’ecologia, la biodiversità e il rispetto delle altre specie sono diventati un argomento di primo piano per l’opinione pubblica, spingendo studiosi e ricercatori a chiedersi come sia possibile invertire la tendenza prima che tutto il nostro operato ci si rivolti contro (attraverso il riscaldamento globale o qualche strano virus) e, soprattutto, come coesistere con quei mammiferi che risultano così spaventosamente simili a noi.

cesare inizio alba del pianeta delle scimmie

Il reboot L’alba del pianeta delle scimmie, diretto da Rupert Wyatt, è partito proprio da questo, da uno scimpanzé di nome Cesare che cresce in laboratorio, subendo modifiche genetiche per trovare una cura alle malattie neurodegenerative, fino a quando non sviluppa un’intelligenza fuori dal comune. Nonostante l’affetto del suo padre putativo, uno scienziato, Cesare si scontra con la discriminazione di una società umana che lo vede come una bestia pericolosa, un animale che indossa dei vestiti per diletto altrui e che va tenuto in gabbia alla stregua degli altri primati. Cesare si stanca di subire abusi, capisce di essere diverso e di non avere un posto in nessuno dei due mondi – quello umano e quello selvaggio. Decide perciò di liberare altre scimmie dopo averle potenziate con il medesimo siero che scorre nelle sue vene, e che darà origine al virus che in futuro decimerà gli Homo Sapiens (ALZ-113).

rivolta l'alba del pianeta delle scimmie

Lungo la nuova trilogia, che conta due acclamatissimi episodi diretti da Matt Reeves, Cesare diventa un personaggio con cui è facile empatizzare, un individuo dotato di carisma che mette continuamente in discussione il suo operato e la sua bussola morale, passando da capo di una rivolta a fondatore di una nuova società, condividendo le caratteristiche di un martire e di un patriarca biblico. Andy Serkis, che già con Gollum aveva fatto la storia della CGI, si getta anima e corpo nella costruzione di una scimmia indimenticabile, curando in modo maniacale le movenze, la modulazione della voce e l’espressività facciale (avete presente il solito discorso “Più umano degli umani”? Mai fu più azzeccato). Il tutto nella cornice di una saga dai toni adulti e riflessivi. L’ultimo The War – Il pianeta delle scimmie aveva chiuso un arco narrativo, anche se il regno che ci veniva presentato ai tempi di Charlton Heston imbruttito col perizoma era appena agli inizi.

war pianeta scimmie protagonisti armati

Un franchise rinnovato e privo – almeno finora – di scivoloni su bucce di banana non poteva rimanere a lungo lontano dagli schermi, perciò è stato arruolato Wes Ball (responsabile della trilogia di Maze Runner) per dirigere un sequel sulla sceneggiatura di Josh Friedman (che ha nel curriculum La guerra dei mondi versione Spielberg e Avatar 2). Il prologo si connette alla fine dell’ultimo capitolo, con Cesare che abbandona le sue spoglie terrene per diventare mito, una figura semidivina che ispirerà, dopo secoli, nobili valori di fratellanza e culti fanatici. Mentre il corpo brucia sulla pira assistiamo alla nascita di una simbologia, di una ritualità, dell’introiezione collettiva delle massime “Scimmia non uccide scimmia” e “Scimmie insieme forti”.  Forse non ne nascerà un altro come lui.

panorama il regno del pianeta delle scimmie

Balzo temporale in avanti, di parecchie generazioni. Il mondo è dominato da scimmie suddivise in tribù mentre gli esseri umani sono definitivamente regrediti a uno stadio animale (la maggior parte di essi, perlomeno). Le panoramiche aeree indugiano su grattacieli in rovina e ricoperti di vegetazione, una roba che Bosco verticale spostati, e ci viene difficile non pensare all’estetica di best seller videoludici come The Last of Us o Horizon Zero Dawn, per non parlare di Will Smith che porta il cane a pisciare sui resti della civiltà in Io sono leggenda. In quella che sembra una sezione platform in piena regola, un gruppo di giovani scimpanzé si arrampica sulle vette più alte per rubare un uovo d’aquila e compiere così una cerimonia che segnerà il loro passaggio all’età adulta. Tra questi c’è Noa (Owen Teague), il portatore della sindrome di Simba.

noa regno del pianeta delle scimmie

Il protagonista – che guarda caso porta un nome da patriarca specializzato in esodi – non è un Cesare e l’attore non è certo un pioniere come Andy Serkis, qui ridimensionato al ruolo di consulente, eppure c’è un guizzo vitale negli occhi di Noa, lo sguardo di chi sa di dover affrontare delle prove; una sorta di Paul Atreides scimmiesco che non aspira a diventare un leader ma viene chiamato a esserlo. Parlavamo di una sindrome da Re Leone e infatti Noa è nientemeno che il figlio del capotribù, un saggio e autoritario maestro delle aquile che si mostra formale nei confronti della prole e guarda con attesa al rituale che sancirà il suo legame con il futuro aquilotto. L’uovo più prezioso si trova in alto e bisogna arrampicarsi senza paura per conquistarlo, perché una scimmia con l’aquila alla Assassin’s Creed è ancora più figa di una semplice scimmia a cavallo, al punto da farci immaginare che Noa debba salire su una cima per sincronizzare la mappa di gioco e sbloccare nuove aree.

galleria regno pianeta delle scimmie

Le giovani scimmie non sanno tutto del passato ed esplorano le metropoli in rovina fin dove glielo permettono le leggi parentali (c’è sempre una valle proibita), convinti che grattacieli e centri commerciali fossero un luogo costruito caritatevolmente dai primati per dare una casa agli umani invece di lasciarli a pascolare nelle praterie. Qualche indizio visivo fa intuire una verità più profonda ma la società di Noa si basa sulla tradizione orale e non sulla parola scritta, perciò il sapere è mutevole, come quando racconti una storia a una persona e, dopo un lungo passaparola, il ventesimo tizio se ne esce con una versione completamente alterata. L’unica guida sono le leggi dei padri, ma saranno giuste e veritiere? Questo Regno del pianeta delle scimmie spinge sul world building a tavoletta durante tutto il primo atto, facendoci interrogare sulla coesistenza pacifica, sui retaggi culturali e su un istinto, la ricerca della verità, che si affianca a quelli primordiali come fame e sete.

orango il regno del pianeta delle scimmie

Tutto molto affascinante e gagliardo, finché arriva il momento di premere START e abbandonare il prologo: Noa non fa nemmeno in tempo a deludere il suo Mufasa che il villaggio viene attaccato da predoni, dei fascistoidi che inneggiano a Cesare, bruciano capanne e catturano schiavi. Con il padre defunto, spetta all’erede biblico il fardello della salvezza della tribù: Noa deve riportare tutti a casa e si imbarca nel tipico viaggio dell’eroe, scoprendo che là fuori c’è più di quanto credesse, incontrando pericoli e personaggi strani. Uno di questi è un orango che assolve il ruolo di aiutante saggio con punte di ironia, a metà tra Obi-Wan Kenobi e Frate Tuck. Lo scimmione, da seguace dell’autentico verbo cesariano, preserva i libri, guarda agli umani con affetto e cerca di portare Noa verso qualcosa che trascende la sete di vendetta: la strada per la coesistenza. Sempre di Frate Orango è il merito di accogliere nel gruppo l’umana Mae (Freya Allan, scoperta con la serie The Witcher), che naturalmente ha il viso pulito, delle vesti integre e un barlume di intelligenza che presto si disvelerà di fronte ai due attoniti primati. Cazzarola, questa umana parla! Forse la scala evolutiva non è come ce l’hanno raccontata davanti al falò e alle aquile scagazzanti.

freya allan regno del pianeta delle scimmie

Il bizzarro gruppo, perdendo qualche pezzo per strada, giunge al dominio del terrore dell’autoproclamato re Proximus Caesar (Kevin Durand), un individuo spietato, pervaso da manie di grandezza, che arringa la folla munito di corona e di mutanda arancione. Il sovrano abita in una nave arrugginita come il cattivo di Waterworld e si tiene William H. Macy come valletto per farsi leggere libri e imparare un po’ di Storia, in particolare quella romana; da qui la sua fissazione per la costruzione di un nuovo impero, della militarizzazione, con i suoi scagnozzi dotati di corazze rudimentali che ricordano quelle dei legionari. Proximus ha compreso la gloria passata degli umani e ciò gli ha causato, oltre al senso di ambizione, una paura fottuta della schiavitù: di cosa sarebbero capaci, queste scimmie depilate, se tornassero al potere e si riappropriassero della loro tecnologia?

proximus caesar in kingdom of the planet of the apes

Nel dubbio è meglio schiavizzare le altre tribù per ottenere forza lavoro e aprire un vault dove riposano, pronti all’uso, carrarmati, mitragliatori e altri gingilli. L’agire di Proximus rispecchia le ondate di xenofobia e il concetto di guerra preventiva che pervade le superpotenze odierne: procurarsi un deterrente, colpire prima di essere colpiti, non avere pietà del nemico poiché quest’ultimo, a ruoli invertiti, di certo non ne avrebbe. Noa si rende conto che la sua civiltà non è tutta rose e fiori, e scopre a sue spese l’ambiguità degli umani, che tenevano i suoi avi dietro le sbarre e che perfino oggi, isolati e decimati, non rinunciano al doppio gioco pur di ottenere ciò che gli serve. Alla luce dell’opportunismo interspecie e di una rinuncia alla dicotomia buoni-cattivi, è possibile una convivenza pacifica? Boh, passami una banana, che devo pensarci. A quanto pare con la posizione eretta e i pollici opponibili si guadagna la facoltà di combinare casini.

nave incagliata regno del pianeta delle scimmie

Prestando attenzione al comparto degli effetti speciali si nota un budget senz’altro inferiore rispetto agli ultimi capitoli diretti da Reeves e la maggior parte degli sforzi è concentrata, manco a dirlo, sulla fisionomia dei protagonisti, sulla fluidità dei loro movimenti e sulle interazioni del loro manto con l’acqua, con il vento e con le fonti di luce: meglio sacrificare un po’ di dettagli ambientali e lesinare sulle aquile pur di non perdere la scintilla nell’occhio delle scimmie; in fondo è sempre la complessità delle emozioni che gli attraversano il loro sguardo a regalare dei primi piani da money shot.

primo piano protagonista kingdom of the planet of the apes

Se vogliamo parlare della regia, la gavetta di Wes Ball consiste in una trilogia teen drama con dei pischelli che cercano la via di fuga in un labirinto giganorme. Questa è la sua uscita hollywoodiana da quell’universo per approdare al capostipite di una seconda, potenziale trilogia scimmiesca. Il suo Kingdom of the Planet of the Apes si accoda a pellicole dall’alto valore produttivo e con performance stellari, cercando di tenerne alto il nome. Quasi nessuno, in cuor suo, si aspettava un’opera che eguagliasse il duo Reeves & Serkis, mentre i pronostici si dividevano tra la minestra rancida e il minimo sindacale. Bene, Wes Palla riesce a tirare qualcosa di più di un’avventura generica, e nel fluire di questo racconto – dal ritmo leggermente discontinuo – inanella una serie di sequenze potenti, che si parli di un’occhiata meravigliata nella lente del telescopio (il momento dell’epifania, la scoperta di un universo che ci accomuna, di ciò che vorremmo toccare con mano e che ci rende, al contempo, terribilmente piccoli) o di reciproche conoscenze intorno a un falò. Ah, a Wes Palla piace molto Steven Spielberg e lo si nota nelle scene d’azione, con un plongée che omaggia spudoratamente i Raptor nell’erba alta di The Lost World.

sguardo nel telescopio regno del pianeta delle scimmie

Impossibile, da parte nostra, buttare via questo Ape Runner e le sue qualità di blockbuster dignitoso che lascia emergere, in specifici punti della storia, un quid in più, qualcosa a cui puoi ripensare con piacere qualche ora dopo la visione senza che si dissolva nel calderone dei sequel superflui. L’adolescenza dei protagonisti porta alla rilettura di quei temi cari alla saga e all’esplorazione di un altro concetto, quello del valore della memoria e della sua influenza sull’agire dei personaggi: chi ha nozioni del passato lavora per risanare una civiltà (o alla peggio di ristabilire uno status quo), chi non ha passato è affamato di scoperte, chi apprende un passato di seconda mano non ha gli strumenti per contestualizzarlo e commette errori, oppure lo distorce consapevolmente per i suoi loschi obiettivi. Il futuro dipende dalla nostra idea di chi siamo stati, un’idea che possiamo onorare, rinnegare o riscrivere, talvolta per paura di ciò che è stato – e potrebbe ridiventare – colui che etichettiamo come nemico. Ecco, la memoria si riconferma un’arma formidabile ed è il principale pilastro che sorregge questo Regno.

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