L’assassinio dei gangster come autoipnosi regressiva.
di Alessandro Sivieri
La natura umana è schizofrenica: dietro alla vetrina di normalità che costruiamo per arginare gli altri (oppure noi stessi) si celano le ambiguità, le paure, gli istinti di dominazione e le tendenze distruttive. Questa dimensione scevra da ipocrisie è come uno specchio d’acqua torbido, nel quale registi come David Cronenberg amano sguazzare da decenni, sbattendoci in faccia opere estreme e sperimentali. L’autore, celebrato da una folta fanbase (similmente al collega David Lynch), ha scavato fin dagli esordi nel mutevole animo umano e nelle sue derive patologiche, portando alla luce riflessioni dalla matrice esistenzialista su ciò che siamo, sul nostro rapporto con gli altri e con la tecnologia. Fusione tra carne e macchina, mutazioni (avete presente La Mosca?), allucinazioni: un groviglio di metafore e di trovate visive sconvolgenti, che abbracciano con piglio critico la corrente del transumanesimo.
La sua filmografia può contare su un menù favolosamente contorto: dopo un antipasto con le metamorfosi di Seth Brundle abbiamo il piacere di gustare il marasma tossico de Il pasto nudo, la sessualità autolesionista di Crash, le paranoie mediatiche di Videodrome e, infine, la subordinazione della realtà fisica a quella digitale di eXistenZ (coevo di Matrix e parallelo nelle tematiche). Nel nuovo millennio David Cronenberg ha spostato il tiro, sostituendo la psicanalisi alle trasformazioni del corpo: arrivano Spider, A Dangerous Method e, appunto, A History of Violence, dove Viggo “Aragorn” Mortensen, reduce dal boom della trilogia de Il Signore degli Anelli, presta il volto a un uomo apparentemente innocuo.
Tom Stall è un tranquillo padre di famiglia, stimato da tutti, che gestisce un piccolo bar-ristorante nell’Indiana. Un giorno Tom si vede costretto a sventare una rapina in corso nel suo locale, uccidendo i malviventi con uno stile tanto pragmatico quanto brutale, del quale lui stesso rimane sorpreso. Nemmeno la moglie (reduce da una relazione fallita) si capacita di come il suo secondo marito, così gentile e modesto, sia riuscito in pochi secondi a ridurre in polpette due criminali. La storia di Tom monopolizza i TG nazionali, che lo celebrano come un eroe e un difensore della comunità.
Ecco che un losco figuro dal volto sfregiato, Carl Fogarty (Ed Harris), si presenta a casa di Tom, sostenendo che il suo vero nome sia Joey Cusack e che anni prima sia stato un malavitoso, un assassino a sangue freddo, colpevole di averlo sfigurato per puro sadismo. Tom, visibilmente confuso, nega ogni cosa, ma Carl e i suoi scagnozzi danno il via a una vera e propria persecuzione, pedinando la famigliola. Moglie e figli manifestano i primi dubbi sul passato di Tom e perdono fiducia in lui. Gli eventi sono destinati a degenerare in una spirale di violenza e rivelazioni scioccanti.
Cronenberg sembra volerci dire che il sangue non mente, accostandosi a certe teorie lombrosiane che paventano una natura atavica del male. Al netto della reinserimento sociale e delle condizioni ambientali, una personalità violenta non si può cancellare; rimarrà sempre in un angolo del cervello, pronta a emergere quando, segretamente e con vergogna, ne invochiamo l’intervento. Viene ipotizzato un suo potere contagioso, o perlomeno la predisposizione congenita in ognuno di noi, in attesa di un fattore scatenante: come Tom dà sfogo al suo lato bestiale, sventando una rapina con l’omicidio, così il figlio adottivo reagisce ai bulli che da tempo lo umiliano, massacrandoli di botte. L’unità familiare va incontro allo sgretolamento insieme al fragile alter ego che Tom/Joey si è costruito addosso per seppellire il passato.
Come se avessimo spostato le lancette indietro di millenni, assistiamo a episodi di violenza domestica, tra i quali spicca lo stupro della moglie e l’affermazione di una minacciosa patria potestas sulla prole. Un secondo nucleo familiare, sanguinario e votato alla vendetta, torna per reclamare il suo posto nella vita del protagonista. Questa sorta di ipnosi regressiva a colpi di pistola svela il cinico enigma di Joey, avvertendoci che in molte realtà contemporanee il biblico “porgi l’altra guancia” è parte di una favola ipocrita, subordinata alla legge della giungla.
Non c’è regolamento di conti che possa sanare un legame di fiducia ormai compromesso: la moglie e i figli di Tom non capiscono con che genere di uomo abbiano condiviso il tetto fino a oggi, e si chiedono se sarà possibile convivere con la sua doppia identità. Una visione impietosa delle relazioni umane, una lucida analisi priva di autocompiacimenti e di orpelli vari: il black humor di Ed Harris e William Hurt, così come le coreografie violente, sono funzionali alle sensazioni stranianti che il regista vuole trasmettere. Le inquadrature crude e taglienti, un po’ come il volto celato di Joey/Tom, portano in scena l’incubo che si annida nel perbenismo del sogno americano.