Morgan Freeman investigatore alle prese con i peccati di John Doe.
di Alessandro Sivieri
C’era una volta il classico detective disilluso, quello che si muove nei vicoli putrescenti e agisce ai limiti della legalità; quello che non ha più nulla da perdere, che capisce di doversi sporcare le mani per acciuffare l’astuto criminale. E c’era una volta David Fincher, regista flessibile che negli anni ha sfornato titoli come Fight Club e The Social Network; con Se7en siamo al periodo della giovinezza, quando è reduce dai travagli produttivi di Alien 3 ma pronto a farsi valere. Ecco che la sua inventiva gli permette di lanciare sul mercato una pellicola neo-noir con i controfiocchi. Il protagonista è Morgan Freeman, nei panni dell’anziano sbirro Somerset, affiancato per la risoluzione di un caso dal giovane e impulsivo David Mills (Brad Pitt).
I due si aggirano nei bassifondi di una città alla Los Angeles, perennemente bagnata dalla pioggia, alla ricerca di un inafferrabile serial killer che ha attirato la morbosa attenzione dei media grazie alla sua brutalità: seleziona, tortura e uccide le sue vittime in base ai sette peccati capitali. Un uomo in apparenza normale che nasconde una mentalità squilibrata, che cammina in mezzo alla gente comune, determinato a portare a compimento un disegno complesso.
Ricordando i polizieschi di una volta, Fincher non si fa problemi a rispolverare degli archetipi consolidati da decenni. C’è l’investigatore prossimo alla pensione, immerso in una vita malinconica e solitaria, pronto a sfoderare il suo micidiale sarcasmo contro i seccatori. Abbiamo poi il novellino, il partner/erede che ha un approccio al mestiere diametralmente opposto. Nonostante le differenze, tra i due poliziotti nasce l’amicizia, scandita da momenti di quiete e da rocamboleschi inseguimenti in una città degradata. A ciel sereno giunge il risvolto inatteso, capace di elevare la pellicola oltre le convenzioni: la crudezza degli omicidi e la sofferenza delle vittime, spiattellate sullo schermo fin quasi a disgustare lo spettatore.
Alla base della vicenda troviamo un piano lucidamente folle, che tiene sotto scacco una città intera grazie al terrore. Il un killer si fa beffe dei suoi inseguitori, lascia indizi costruiti con minuzia teatrale. Questa sinistra figura ha il nome di John Doe (uno “sconosciuto” in gergo giuridico) ed magistralmente interpretata da Kevin Spacey: istruito, astuto e matto come un cavallo, si crede un giustiziere divino con il compito di punire i malvagi. Le sue facoltà di manipolatore lo avvicinano al dottor Hannibal Lecter di Anthony Hopkins (Il silenzio degli innocenti era uscito qualche anno prima). Solo durante l’epilogo, che spinge a tavoletta sul nichilismo, lo spettatore arriverà a comprendere la grandezza del suo disegno. Una volta completato, il mosaico di questo villain ci porta a riflettere sulle debolezze umane e sull’ineluttabilità del male.
Tra le tante e rivoluzionarie produzioni filmiche degli anni ’90, guadagna il podio questa evoluzione del thriller/noir, che si consuma nell’efferatezza degli omicidi (spesso e volentieri preceduti da una lenta agonia) e nella rinnovata figura del mastermind, l’assassino senza scrupoli che gioca sempre d’anticipo e si serve dei personaggi come se fossero burattini. Un individuo imprendibile che, portando avanti il proprio piano, si consegna alla polizia di sua spontanea volontà. Senza il John Doe Se7en, profeta del genere torture porn, risulta difficile immaginare saghe di successo come quella di Saw. Insomma, l’ottavo peccato sarebbe non vederlo.
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