AUTOPSY – Accendi la luce, li mortacci tua

Dal regista di Troll Hunter arriva un horror forense che ti parla col cuore in mano. Il tuo.

di Alessandro Sivieri

Mai come negli horror vale la regola del less is more, di un pragmatismo che ti porta a concentrare i pochi soldi a disposizione (è una legge di natura: non saranno mai abbastanza) sui punti di forza e tralasciare il superfluo. Per esempio, puoi prendere una storia lineare, una location figa e piazzarci una coppia di attori credibili a far funzionare il tutto. Una mossa produttiva ben piazzata in questo Autopsy, diretto dal norvegese André Øvredal, che qui realizza la sua prima opera in lingua inglese nel tempo che intercorre tra il progetto indie Troll Hunter e la collaborazione con Guillermo Del Toro in Scary Stories to Tell in the Dark.

autopsy jane doe cadavere

C’è un cadavere misterioso (la bella Olwen Kelly in vesti adamitiche), una serie di manifestazioni dall’oltretomba e una vagonata di tensione. Visto? Poche cose fatte bene, non come nell’omonimo Autopsy del 2008, dove le poche cose cadevano a pezzi e gli unici bipedi senzienti sul set erano i relitti dei film di James Cameron (Jenette Goldstein e Robert Patrick). Le due pellicole, a parte la titolazione italiana, le frattaglie e le vaschette piene di bisturi, non condividono nulla. Per la fortuna di tutti siamo qui a parlarvi dell’Autopsy ben riuscito.

padre e figlio tilden in autopsy

L’ambientazione permette di vincere facile, eppure quella di Øvredal è una delle poche opere che sfruttano a dovere il setting dell’obitorio e che spaventano in modo genuino. Siamo una bella spanna sopra a lavori di serie Z come L’esorcismo di Hannah Grace (con il quale Autopsy ha dei punti in comune) e pure a Nightwatch con Ewan McGregor e Nick Nolte. La carta vincente, oltre agli scenari dal gusto vintage, è uno svolgimento che prende a pretesto l’elemento orrorifico per parlarci di conflitti personali insoluti e del dramma di una famiglia. Non ci sono guardiani notturni al primo giorno di lavoro o ragazzine smarrite, ci sono un padre e un figlio che affrontano la solitudine mentre fanno a pezzi il cadavere di qualche sconosciuto per trovare le cause del decesso.

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Nel cuore del Virginia, i Tilden esercitano da generazioni il mestiere di medico legale. L’anziano Tommy Tilden (Brian Cox) ha preservato il prestigioso obitorio proprio sotto la casa di famiglia e lo porta avanti con l’aiuto del figlio Austin (Emile Hirsch), che ha la qualifica di assistente di laboratorio. Tommy si è isolato da quando la moglie è venuta a mancare per un male incurabile, addossandosi ogni senso di colpa possibile, e la sua professione assume i contorni di uno sfogo: avendo a che fare quotidianamente con anonimi defunti, riesce in qualche modo a esorcizzare la perdita della consorte.

emile hirsch tilden autopsy

Il figlio non vuole abbandonare il padre ma sogna di cambiare vita, trasferendosi insieme alla fidanzata Emma (Ophelia Lovibond). I due vivono il lutto separatamente, in un tacito patto di incomunicabilità, e conducono autopsie sotterranee a tempo di musica, in un tono quasi scanzonato. Nessuna mancanza di rispetto per le vittime, quanto una zona di comfort mentale. Almeno fino a quando non arriva un cadavere immune alla decomposizione e con una spiccata dote per la negromanzia.

campanello piede autopsy

La giovane Jane Doe (così viene chiamata una ragazza non identificata, al pari del corrispettivo maschile John Doe) è stata trovata semi-sepolta in una casa dove è avvenuto un pluriomicidio dalle modalità incerte. Il suo corpo si svela ai protagonisti come le pagine di un racconto, mettendo in luce gli indizi che giacciono sottopelle e negli organi interni. La modella irlandese Olwen Kelly è eccezionalmente espressiva nel fare la morta, aiutandosi con tecniche di controllo del respiro derivanti dallo yoga. Recitare nuda davanti al cast e con una quantità crescente di protesi non ha scoraggiato la giovane attrice, che sembra osservare intensamente lo spettatore durante i frequenti primi piani. Ad aiutarla troviamo un manichino “a cipolla”, utilizzato per mostrare i tagli e le interiora. Il risultato è un mix di effetti speciali alla vecchia maniera e di una direzione attoriale eccellente.

brian cox medico legale in autopsy

Brian Cox, il primo Hannibal Lecter sullo schermo in Manhunter (e in seguito uno spassoso Agamennone), si cala abilmente nella parte di uno scienziato che cerca una spiegazione razionale per ogni cosa, sordo alle perplessità del figlio e, in ultima, al proprio dolore. Emile Hirsch, fenomeno di Into the Wild, ha una mente più aperta del padre e presta orecchio ai campanelli d’allarme che gridano “Sovrannaturale!”. L’affascinante salma nasconde un segreto di stregoneria e di antiche maledizioni, che mettono alla prova i limiti della scienza. L’indagine forense diventa una caccia al gatto col topo nei sotterranei della villa, con cadaveri sfigurati che escono dalle celle per sgranchirsi le ossa e sequenze alla Lights Out. È tutta autosuggestione? Fino a un certo punto condividiamo lo scetticismo di Cox, poi la pellicola vira decisamente sul paranormale e non concede spazio a ripensamenti.

incendio cadavere autopsy of jane doe

Se le prove recitative sono di alto livello, l’altro piatto saporito è un ritmo ben calibrato, un montaggio che si prende il suo tempo per navigare negli scenari. Le fredde luci al neon, le stanze polverose e le boiserie in legno vengono scandagliate dalla camera come farebbe Ridley Scott con i corridoi della Nostromo, prima di servirci una serie di jumpscare, inevitabili per lo standard di genere ma dosati con cognizione. Lo script vacilla nel terzo atto e le ferree convinzioni del padre lasciano bruscamente il posto a una fede cieca nelle origini stregonesche di Jane Doe, risolvendo in un minuto scarso di sproloqui il rebus del suo passato.

autopsy jane doe specchio

In generale questo Autopsy non campa di idee innovative, come in una ricetta che rimane immutata sul menù da decenni, eppure Øvredal non sbaglia alcun ingrediente, facendoci desiderare che tutte le produzioni contemporanee nobilitino i cliché allo stesso modo. Il body horror e l’esaltazione delle interiora ci fanno pensare a David Cronenberg, sebbene il film non aspiri a una carnalità provocatoria, quanto alla costituzione organica dell’enigma per una detective story con li mortacci tua che non vogliono riposare in pace. Altrettanto valido è lo studio del personaggio, e non ci riferiamo solo a una Jane Doe che diventa più minacciosa con la rimozione chirurgica delle appendici (disumanizzazione progressiva dell’aspetto), ma a una persona che fa le ore piccole in mezzo alla morte per scordarsi quanto quest’ultima possa far male a chi resta in vita, che si tratti di uno zombie nella penombra o di un amore lacerato.

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