di Nanni Cobretti
In principio c’era la Asylum, che conquistò l’immaginario collettivo con la visionaria intuizione di un megasqualo che saltava così in alto da azzannare un aereo in volo: grazie a un filmetto intitolato Mega Shark vs Giant Octopus, nacque il più improbabile dei filoni.
Perché la moda degli zombi la posso capire: sono economicissimi, e narrativamente si prestano a qualsiasi cosa, horror puro, satira, metafora, commedia, dramma, action, art movie riflessivo, quello che volete. I vampiri anche.
Quello che ha sempre frenato ad esempio i licantropi invece, pur avendo anch’essi una mitologia che si presterebbe a mille varianti, è sempre stato il costo: dagli anni ’80 ad oggi i lupi mannari fatti come si deve si contano sulle dita di una mano.

Gli squali sono teoricamente molto meno flessibili, e sempre teoricamente richiederebbero uno straccio di perizia tecnica, ma sembrano aver colpito la fantasia di quel tipo di pubblico che non è respinto dall’effetto speciale grezzo se in cambio gli si dà un’idea creativa surreale, imprevedibile, goliardica. Che non va confusa con il “gusto per il brutto”: credete forse che qualcuno si lamenti se Sharknado, a sceneggiatura identica, vantasse CGI decorosa? Il contrario.
E così di colpo abbiamo avuto squali, sempre rigorosamente poverissimi, in tutte le più improbabili salse: giganti, a due teste, coi tentacoli, nella sabbia, persino fantasmi.

Che è il motivo per cui questo Paradise Beach finisce per spiccare: 1) torna a giocarsela con un normalissimo squalo solo, come quarant’anni fa; 2) ha tutto il budget che gli serve per mostrarcelo finalmente in tutto il suo splendore.
La premessa sui cui è construito ovviamente non lo associa più di tanto allo stesso trend della Asylum e i suoi imitatori, ma piuttosto in quello dei piccoli thriller stile Open Water o The Reef, ma anche in confronto a questi la differenza di un approccio minimalista per scelta piuttosto che per necessità fa pesare tutta la sua freschezza e ampiezza di respiro.
Jaume Collet-Serra, uno dei registi più sottovalutati in circolazione, è uno specialista delle formule e dei concetti a raggio ristretto, e si pone sui suoi predecessori sopracitati con la rilassata arroganza del campione di basket che sfida a schiacciate un bambino: un po’ gli basta essere più “alto”, un po’ si diverte comunque a fare sfoggio di quel mestiere, tecnica ed esperienza su cui i rivali, troppo concentrati a non crollare malamente prima della fine della partita, ancora non possono contare.
E allora parti dal concetto facile di Blake Lively in bikini per 90 minuti, dalle un background triste il giusto che spieghi la sua presenza da sola in una spiaggia isolata e faccia scattare l’empatia, dalle rigorosamente il mestiere di medico così puoi giocarti la carta dell’infortunio grave ma controllabile, comprati una fotografia degna di un televisore in vetrina con tutta la saturazione di colori e le inquadrature sportive del caso, poi blocca la nostra protagonista azzoppata su uno scoglio a poche frustranti decine di metri dalla riva, fai arrivare una pinna ed ecco che il paradiso diventa inferno.
Il resto è scolastico: la capacità di creare e calibrare la tensione da situazioni minimal, e la capacità di sapere quando questo non basta e bisogna far pesare il budget con sequenze più elaborate o anche solo spezzare con qualcosa che colpisca visivamente (vedi la nuotata fra le meduse).
Il risultato: nessun guizzo strabiliante ma intrattenimento impeccabile, zero tempi morti neanche per distrazione, e l’impressione che, in un genere in cui tanti normalmente sudano, imprecano e si arrabattano come possono, a Collet-Serra venga tutto abbastanza facile.
Lo squalo è uno solo, ma grosso, cattivo e affamato a livelli spielbeghiani.
Non è l’unico villain, ruolo che condivide con il concetto di disabilità che rende improvvisamente arduo ciò che normalmente si considera sicuro e si dà per scontato, e non è necessariamente un miracolo di effettistica, ma è ben visibile e dettagliato a livelli a cui non eravamo più abituati.
Vi divertirete.
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