di Alessandro Sivieri.
Un film americano tratto da un manga. Con operazioni di questo tipo capita di andare a toccare, a proprio rischio e pericolo, dei mostri sacri con alle spalle orde di seguaci che non perdonano. Quando avviene un incontro-scontro culturale tra l’Oriente e l’Occidente (più precisamente Hollywood) non c’è che da prendere i popcorn e gustarsi le polemiche dei fan inferociti, quelli che sono cresciuti a pane e anime.
Si sa, la mancanza cronica di idee negli States spinge i produttori alla disperata ricerca di storie ben conosciute da tramutare in incasso, anche quelle che sono frutto di una cultura che poco ha a che fare con loro. I risultati possono andare dal completo disastro al filmone (difficile concepirlo quando si tratta di un adattamento), tutto sta nelle scelte strategiche delle major e nel rispetto per il materiale originale. Ghost in the Shell, insieme ad Akira di Katsuhiro Otomo (anch’esso in via di adattamento), è uno dei manga/anime più conosciuti e riveriti in Occidente, un lavoro che ha fatto scuola e ha contribuito a gettare le basi per l’odierna incarnazione cinematografica della cultura cyberpunk: un futuro grigio e distopico, dove il potere è in mano a spietate corporazioni e mantenere la propria individualità diventa una guerra.
Invero alcune pellicole occidentali, antecedenti al suddetto, hanno contribuito a definirne i canoni, come Blade Runner e RoboCop. Ghost in the Shell (creato da Masamune Shirow e diretto da Mamoru Oshii) a sua volta ha ispirato pesantemente lavori come Matrix dei fratelli Wachowski. Per questo motivo occorre armarsi di positività e vedere questo miscuglio di culture come un utile scambio. Poi che Hollywood si prenda spesso la libertà di stravolgere le opere in nome del profitto, nessuno può negarlo, ma ci sarà un po’ di empatia dietro al portafogli?
In un mondo decadente e completamente informatizzato, quasi ogni individuo è dotato di impianti cibernetici (tipo i videogame della serie Deus Ex) ed è sempre più difficile mantenere la propria umanità. Motoko Kusanagi, detta anche Major, è un prototipo sperimentale di cyborg a capo della Sezione 9, che si occupa di neutralizzare cyberterroristi. A prestare il volto al procace androide, accompagnata dalle polemiche, è Scarlett Johansson, che in quanto a interpretare personaggi inumani ha maturato una certa dose di esperienza: quando non combatte con gli Avengers si diverte a impersonare succubi aliene (Under the Skin) o donne dai poteri semidivini (Lucy). Vero, le sue fattezze non sono orientali, ma essendo un essere artificiale i tratti somatici lasciano il tempo che trovano. Tutto il cast di questo adattamento live action è infatti internazionale, multietnico; un risvolto che può essere utile a rendere la natura totalizzante del mondo di domani, dove non contano tanto gli attributi razziali ma la quantità di tessuto vivente sopravvissuta alle protesi elettroniche. Quindi ci sentiamo di affermare che il whitewashing non rappresenta una reale minaccia alla qualità del prodotto. Le incertezze non mancano, ma riguardano altri aspetti.
Il trailer, da buona tradizione kolossal, è spettacolare e presenta diverse scene prese di peso dall’anime (come fa Zack Snyder con le graphic novel), cosa che fa sparire almeno in parte la paura di un completo stravolgimento narrativo. L’estetica e la fotografia paiono di alto livello, perfette per mettere in scena la follia di un progresso che si è spinto troppo in là, dove il degrado e l’orrore si trasformano talvolta in sinistra bellezza. Scarlett è perfettamente a suo agio e resta da vedere se riuscirà a trasmettere la profondità di Mokoto, un essere senza passato che deve fare i conti con la sua natura ibrida. Perché il rischio maggiore è proprio questo, una banale storia di riscoperta delle proprie origini che privilegia le scene d’azione e i momenti surreali, oscurando quello che è il fulcro del manga: la filosofia, l’estistenzialismo, la riflessione sul corpo artificiale e su ciò che ci rende umani. Un altro punto che preoccupa il sottoscritto è la presenza alla regia di Rupert Sanders, che per ora ha all’attivo soltanto Biancaneve e il Cacciatore, per alcuni l’avvincente rielaborazione di un classico, per altri un’insipida operazione commerciale. Fatto sta che questa volta i valori produttivi sembrano sopra la media e ci si può mostrare cautamente ottimisti. Altra mossa a favore la scelta di Clint Mansell per la composizione dello score: sarà interessante vederlo alle prese con l’eredità delle musiche originali di Kenji Kawai. Avanti, Sanders, stupiscimi e soprattutto non sprecarmi la Scarlett.
Ghost In The Shell – The Movies Box
The Ghost in the Shell: 1
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