di Alessandro Sivieri
L’universo cinematografico degli X-Men ha radici molto più antiche di quello Disney/Marvel, con tutti i limiti del caso: le vicende dei vari Patrick Stewart/Xavier, Hugh Jackman/Wolverine e Ian McKellen/Magneto hanno avuto inizio nel 2000, quando la logica gestionale marveliana di film e personaggi non era nemmeno un presagio. Questo alla lunga ha portato a una deriva confusionaria del franchise, tanto che dopo l’ultimo, deludente Apocalypse ci siamo ritrovati con più linee temporali e poche idee sul futuro dei personaggi. I vecchi attori iniziano appunto a invecchiare (Jackman sarà Wolverine per l’ultima volta in Logan), mentre i nuovi interpreti non convincono del tutto (a parte Fassbender e McAvoy). Poi c’è la sorpresa di Deadpool, la scheggia impazzita che ha avuto una pellicola vietata ai minori tutta sua, con un seguito in arrivo. Il mercenario chiacchierone, celebre per le sue incursioni oltre la quarta parete, era già stato impersonato da Ryan Reynolds in X-Men le origini: Wolverine. Quello però non era Deadpool, era un vergognoso tappabuchi.
In questo irriverente stand-alone ci accorgiamo che Reynolds è davvero nato per un ruolo che gli sta molto a cuore (lo dimostra la sua lunga battaglia per produrlo). Alla regia troviamo Tim Miller, prestanome di turno che non tornerà per il sequel, ma ciò non intacca il divertimento, perché se la trama è inconsistente, le scene d’azione sono esagerate al punto giusto e il protagonista viene costruito con minuzia.
Che cos’è in fondo Deadpool? È un individuo praticamente invulnerabile, violento e psicopatico. Vive in un mondo di pistole, katane, mutilazioni, sproloqui, citazioni pop di ogni genere e interazioni dirette con lo spettatore. Reynolds si scatena nella sua tuta di spandex con gli occhi sorprendentemente espressivi; non sta zitto un attimo e ironizza su tutto e tutti: sugli X-Men, sulla sua incarnazione precedente, sul flop di Lanterna Verde e sul suo stesso film, dove lo stereotipo è messo in scena in modo consapevole.
Le stesse origini del personaggio sono un pretesto per inscenare una vendetta dal sapore western: la vita da mercenario di Wade Wilson, il romantico rapporto con l’affascinante Morena Baccarin (la fanciulla da salvare), la rivelazione del cancro che riesce persino a emozionare e gli esperimenti condotti dal cattivo del britannico Ed Skrein. Il suo Ajax, dall’accento marcato, fa lo stronzo con gusto ma non prova nulla e non trasmette nulla. Si fa odiare a sufficienza dal pubblico, che non vede l’ora del duello finale. I pochi X-Men che appaiono (Colosso e Testata Mutante Negasonica) provengono da una timeline sconosciuta e fungono da spalla comica, mentre si fa apprezzare l’artista marziale Gina Carano come guardia del corpo dell’antagonista: tosta, combattiva, femminile a modo suo. Il resto del cast, dalla coinquilina cieca all’amico barista, senza dimenticare il tassista indiano, è lì solo per innescare l’ennesimo scambio di battute. Sono tutti tasselli di un’avventura che, per quanto delirante, non esce mai dal binario della vendetta e della riconquista amorosa. Assolto l’onere di presentare il personaggio, ci aspettiamo un seguito dal sapore più innovativo e politicamente scorretto: questo film è vietato ai minori, ci sono sanguinamenti e qualche tetta, ma è come se si adagiasse sulla sua stessa natura di esordio, confidando troppo nella carica eversiva di Wade/Deadpool, che ne esce azzoppata. A cambiare le cose nel 2018 può essere l’introduzione del mutante Cable, che sarà probabilmente il co-protagonista. Chi ha voglia di un altro chimichanga?
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