LIFE – IL FIGLIO DI ALIEN E GRAVITY

Incontri ravvicinati del peggior tipo.

di Alessandro Sivieri

Consigliamo l’ascolto della colonna sonora durante la lettura dell’articolo, soprattutto la traccia “It’s Alive”

Approdiamo nelle familiari lande del fanta-horror con questo Life di Daniel Espinosa, che in fase di marketing venne erroneamente additato come un film mascherato sulle origini di Venom (sì, proprio la nemesi di Spider-Man, che è già protagonista di un progetto con Tom Hardy). In effetti la natura di Calvin (questo il nome dell’alieno) ha molto in comune con il malvagio simbionte: una sonda di ritorno da Marte giunge alla Stazione Spaziale Internazionale con un prezioso carico, ovvero delle cellule extraterrestri dormienti. Si tratta di un momento importante per l’umanità, il primo contatto con un organismo totalmente estraneo. Gli astronauti si accingono immediatamente a studiarne il DNA e scoprono che, in determinate condizioni atmosferiche, esso prende vita e inizia a moltiplicarsi, diventando sempre più complesso. Purtroppo la prima “stretta di mano” con l’essere sarà disastrosa e Calvin, poco dopo aver ricevuto il nome di battesimo, inizierà a trucidare l’equipaggio per svilupparsi e raggiungere la Terra.

L’opera di Espinosa pesca a piene mani dalla fantascienza più recente con un pizzico di horror anni ’80, ispirandosi spudoratamente ad Alien e La cosa. Il piano sequenza iniziale con l’arrivo della sonda, unito ad alcune suggestioni visive e all’azione a gravità zero, ricorda da vicino Gravity e Interstellar, mentre le ambientazioni claustrofobiche e lo splatter sembrano davvero al servizio di uno Xenomorfo 2.0, scaltro e apparentemente inarrestabile. Calvin cresce in fretta, si adatta, e gli scienziati scoprono con meraviglia che tutte le sue cellule sono allo stesso tempo neurali, muscolari e oculari. Non è malvagio in senso classico ma segue il proprio istinto, consumando altre forme di vita, sfruttando l’ambiente e reagendo alle ostilità. Come direbbe l’Ash di Ian Holm, è “un superstite non offuscato da coscienza, rimorsi o illusioni di moralità”.

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Nonostante svariati tentativi, tra cui la privazione di ossigeno e il fuoco, l’equipaggio non riesce a uccidere l’ospite indesiderato, ottenendo invece l’effetto opposto, cioè mettere a rischio la propria sopravvivenza. I personaggi che abitano la stazione orbitale hanno una caratterizzazione al minimo sindacale, asservita alle necessità di storytelling: Jake Gyllenhaal è brillante come sempre ma si tiene in disparte, nei panni dell’astronauta misantropo che trova nello Spazio la sua unica casa; Ryan Reynolds si riduce al solito simpaticone impulsivo che non esita a correre in soccorso dei compagni. Eppure quel minimo di dinamiche relazionali riesce a farci affezionare ai personaggi, esaltando ancora di più la minaccia di Calvin, che non commette mai lo stesso errore e cambia continuamente il proprio aspetto. Alcune sequenze orrorifiche, come quella del guanto, si fanno apprezzare per intensità, così come le scene più riflessive, dove l’alieno potrebbe essere ovunque.

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Lo sviluppo campa su espedienti già noti ma si salva grazie a un twist ending che assesta una sana botta di cinismo, e dispiace che questo film abbia ricevuto un’accoglienza sottotono, perché il materiale è più che valido per mostrofili e non. L’originalità latita e la forma finale di Calvin viene rivelata troppo presto, ma questo gioiello ha il pregio di riportarci in quella fantascienza dove la creatura e l’ignoto sono i veri protagonisti, scatenando le nostre paure ancestrali.

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