Recensione del travagliato film di Terry Gilliam
Nell’anno in cui sono nato, 1992, Terry Gilliam aveva già sfornato quello che dai più è considerato il suo capolavoro, Brazil, e aveva già in mente di realizzare il suo film su Don Chisciotte. Ci sono voluti 25 anni per portare a termine L’uomo che uccise Don Chisciotte, progetto passionale di Gilliam che è divenuto famoso come esempio estremo di difficoltà produttive. Le riprese iniziano nel 2000 con Johnny Depp protagonista. Seguono contrattempi, problemi finanziari, un’alluvione che danneggia tutta l’attrezzatura, problemi di salute nel cast, il film viene cancellato, i diritti della sceneggiatura passano agli assicuratori… e questo è solo l’inizio. Se volete approfondire vi rimando al documentario Lost in La Mancha, che racconta i dettagli di questa produzione sfigata.
Nel 2018 L’uomo che uccise Don Chisciotte è finalmente nelle sale. Inizia con un titolo: “Ed ora… dopo 25 anni di fare… e non fare”. Una frase che, oltre a far sorridere, anticipa elementi presenti in tutto il film: ironia, comicità, meta-cinema. Lo stile di Gilliam è –copio spudoratamente la definizione da Wikipedia- “un esasperato eclettismo figurativo, di spiccata matrice postmoderna, in cui bello e brutto, antico e moderno, sublime e kitsch, elementi di cultura “alta” e avanzi pop si intrecciano senza ordine gerarchico”. Il suo Don Chisciotte è tutto questo e molto di più, e rappresenta una perla, un capolavoro nella filmografia del Monty Python americano. Non c’è da stupirsi che la critica non l’abbia acclamato all’unanimità all’ultimo festival di Cannes. I film più celebri e famosi di Gilliam sono infatti, paradossalmente, quelli meno rappresentativi del suo stile: parlo de L’esercito delle 12 scimmie e Paura e delirio a Las Vegas. Forse per apprezzare veramente questo film occorre lasciare da parte il Sancho Panza dentro tutti noi e trasformarsi in Don Chisciotte. Ma ci sarà sempre chi non vedrà i giganti, ma solo mulini a vento. Chi non vedrà un grande film, ma solo una fatica produttiva. Chi non vedrà un puzzle narrativo costruito in modo magistrale, ma solo un graduale aggrovigliamento nella vaghezza del fantastico con un finale bambinesco (ogni riferimento ad articoli su Wired è puramente casuale).
Ma veniamo al dunque. Don Chisciotte della Mancia. Secondo voi il nostro Terry si limita ad una trasposizione almeno vagamente classica? Ovviamente no. Già dai primissimi minuti assistiamo ad una narrazione post-moderna che, non a caso, mi ha riportato alla mente la lettura scolastica de La donna del tenente francese. Il film ha come protagonista Toby (Adam Driver), un regista di spot pubblicitari, acclamato, geniale, cinico e stronzo (facilmente associabile allo stesso Terry Gilliam, ma più in generale alla figura dell’artista) che si trova in Spagna a girare su un set a tema Don Chisciotte. Qui incontra un gitano, personaggio spassosissimo che tornerà a più riprese nel film, che vende dvd pirata di un primissimo film giovanile di Toby girato lì vicino, con gli abitanti del posto come attori: “L’uomo che uccise Don Chisciotte”. Più tardi si scopre che quel piccolo film su Don Chisciotte ha portato tutt’altro che fortuna al cast esordiente: Sancho è morto in seguito a problemi con l’alcol, Dulcinea seguendo la strada della recitazione è diventata una puttana dei produttori, Don Chisciotte è convinto di essere veramente Don Chisciotte. L’incontro con quest’ultimo porterà Toby ad una serie di disavventure, tra sogno e realtà, passato e presente, fuori e dentro il film, sopra e oltre la tela del cinema. Più la storia prosegue, più queste dicotomie spariscono in un tutt’uno.
Ho avuto il piacere di assistere ad una proiezione del film a Milano, dove il regista ha presenziato per un saluto al pubblico pre-visione. Alla domanda del moderatore su quale fosse l’interpretazione più corretta per comprendere il film, Gilliam ha risposto: “Cercate di restare svegli!”. Sarebbe bastata questa come risposta, ma poi ha chiarito: “Ovviamente non voglio suggerire alcuna interpretazione, spero che alla fine ognuno di voi avrà visto un film diverso”. L’uomo che uccise Don Chisciotte racchiude tantissime tematiche, e altrettanti spunti di riflessione: c’è un bellissimo discorso sullo “straniero”, gestito con un’ironia strepitosa, ci sono gli antagonisti/produttori che ricordano Weinstein & co. ma anche il mondo politico sempre più assurdo e schifoso. Ciò che emoziona di più è la già citata messa in scena, che mescola Cervantes, Fellini, Gilliam (di autocitazionismo ce n’è in abbondanza come è giusto che sia) per portare sul grande schermo Don Chisciotte in modo inedito ma rievocando comunque lo spirito del romanzo di Cervantes (che già era meta-letterario).
Di tutti i motivi possibili per apprezzare questa pellicola, quello che ho adorato è il modo in cui il regista ha inserito nel film la sua più grande dichiarazione d’amore nei confronti del cinema. Una dichiarazione che diventa una ricerca di identità. Gilliam è Toby, l’artista che all’inizio del film verrà scambiato per Sancho. È Sancho perché ancora troppo ancorato alla realtà, alla macchina produttiva, al cash. Non “vede i giganti” e sbeffeggia Don Chisciotte. Ma gradualmente entrerà nel fantastico e lo farà suo, diventando sempre più Chisciotte, personaggio che rappresenta il film, la storia, l’opera dell’artista. Quando l’artista diviene la sua opera diventa immortale. E quindi in realtà nessuno può uccidere Don Chisciotte. Perché si può uccidere un’artista, ma non un’idea, un’opera, un film. Parallelamente a questa metafora c’è anche l’attrazione di Toby (e Don) per Dulcinea/Angelica che rievoca, appunto, la passione per la settima arte, con un risvolto potentissimo nel finale. Motivi di riserva? Si ride, e Adam Driver è strepitoso. Probabilmente la migliore interpretazione della sua carriera.
Bellissima la tua interpretazione finale. Aggiungerei che “quando l’artista diviene la sua opera d’arte” non solo diventa immortale, ma anche pazzo! C’è una sorta di sacrificio carnale alla propria arte!
A parte questo, è stato per me un raro caso in cui a fine film mi sono ricreduto con entusiasmo rispetto a una prima parte deludente!
Kalos