La genesi dei Queen e di Freddie Mercury in un biopic ben dosato.
di Alessandro Sivieri
Con travagli produttivi ai livelli di Solo: A Star Wars Story, il rischio di fallimento per un biopic sul leggendario frontman dei Queen stava già entrando dalla porta sul retro. Continui rimandi, l’ingerenza dei membri della band, l’abbandono dell’attore Sacha Baron Cohen e, a riprese avanzate, il licenziamento del regista Bryan Singer per i ritardi e i conflitti con il cast. Il cineasta è stato in seguito sostituito da Dexter Fletcher, che ha completato le poche sequenze mancanti. Agli intoppi organizzativi si aggiunge il peso della figura di Freddie Mercury. Per dirla con un termine caro al nostro portale, era un mostro di bravura. Su di lui si è detto tutto e di più: presenza scenica devastante, impressionanti doti canore e interpretative, talento creativo e una bella dose di sregolatezza. Se sul palco lo ricordiamo come un dominatore assoluto, dietro le quinte affiorano le voci sul suo orientamento sessuale, sulle droghe, gli eccessi e la morte prematura per l’AIDS. È inevitabile, al fine di ottenere un ritratto dell’artista a 360 gradi, un’incursione nei lati problematici della sua vita privata. Sappiamo che Cohen, prima del suo allontanamento, era determinato a offrirci una versione più torbida di Freddie, mentre i componenti dei Queen preferivano focalizzarsi sulla storia del gruppo senza lampi di morbosità. Alla fine delle trattative ci siamo ritrovati con il promettente Rami Malek, da tempo in attesa di un ruolo decisivo. Come se l’è cavata di fronte a un’icona del rock?
Mi ha coinvolto oltre le aspettative. Pur stimando i Queen non sono un fanatico e non vado nemmeno pazzo per i biopic, che si rivelano ridondanti nella struttura e non si assumono dei rischi, specie se parliamo di personaggi molto amati. Temevo inoltre di entrare in sala per assistere a un concerto, e invece ho incontrato un prodotto dinamico, che si ricorda di essere cinematografico anche nelle parti musicali (grandiosa l’esibizione finale del Live Aid). A livello narrativo non si percepisce nulla di nuovo, con una sceneggiatura ancorata ai cliché delle origin story, ovvero: individui talentuosi ed emarginati si incontrano; arrivano al successo; hanno una crisi; si rappacificano. Fortunatamente la formula viene arricchita da una regia solida e da un montaggio che ha qualche asso nella manica. Piacevoli alcuni raccordi tra una sequenza e l’altra, così come i movimenti di macchina, che indugiano volentieri sugli oggetti (in questo caso gli strumenti), spesso importanti quanto i personaggi in carne e ossa.
Il perno centrale è ovviamente il Freddie di Malek: all’anagrafe Farrokh Bulsara, è un ragazzo originario dello Zanzibar che sogna in grande e si sente prigioniero di una vita priva di stimoli. In perenne conflitto con il padre tradizionalista, viene inoltre irriso per le sue origini e per i denti sporgenti. La sua occasione arriva con la conoscenza (in verità non proprio casuale) di Brian May (Gwilym Lee) e Roger Taylor (Ben Hardy), due studenti che suonano nei locali. Al gruppo si aggiunge poi il mite bassista John Deacon (Joseph Mazzello) e il successo inizia ad arrivare. Per esigenze narrative la scalata della band appare eccessivamente brusca, ma grazie alla bruciatura delle tappe possiamo goderci la genesi inusuale dei brani più storici (We Will Rock You, Another One Bites the Dust e la stessa Bohemian Rhapsody). Malek ha una buona somiglianza fisica e ce la mette davvero tutta, evitando di passare per il finalista di un concorso per sosia. Non si limita a ricalcare le mossette sul palco ma ci mostra le fragilità di Freddie nella vita di tutti i giorni, con un forte accento sulla solitudine. Un uomo onnipotente davanti a migliaia di persone diventa indifeso una volta varcate le mura domestiche, tra amicizie sbagliate e dubbi sulla propria sessualità. Nessun pietismo di comodo, perché il suo Freddie sa essere anche egoista e sconsiderato quando serve, rivoltandosi contro la sua vera famiglia, ovvero i Queen.
Una fetta dei fan critica il trattamento edulcorato di tematiche come l’uso di droghe e le avventure omosessuali. Eppure gli aspetti scottanti di Freddie vengono trattati a sufficienza, a volte con delicatezza, ma senza il desiderio di nasconderli. Siamo sicuri che mostrarlo in primo piano mentre tira cocaina o si abbandona a un’orgia avrebbe aggiunto qualcosa a livello descrittivo? Stessa dose di lamentele per la collocazione temporale errata di certi eventi (come la diagnosi dell’AIDS), che però assumono un valore diverso nella diegesi. Ricordiamoci che, per quanto corra sui binari, questo non è un documentario ma un film. Le vicende, al pari dei personaggi, vengono romanzate per ottenere un maggiore impatto emotivo. Gli stessi membri del gruppo si dividono in archetipi perfettamente bilanciati: Brian è quello responsabile, Roger è il tipo irascibile e John è il membro più mansueto, che mantiene le distanze e funge da collante per la band. Ognuno ha la sua piccola fetta di minutaggio, utilizzata in modo intelligente. Dubitiamo che le controparti reali abbiamo dei caratteri così standardizzati, ma il punto è che dobbiamo lasciarci trasportare da una favola ispirata alle cronache. Non siamo qui per correggere una verifica di storia.
Stessa cosa per il protagonista: Malek ha sfidato un mito e ha fatto un lavoro coi fiocchi, tratteggiando una star con la quale è facile empatizzare. Non ha resuscitato Mercury perché nessuno riuscirebbe a farlo. Ci sono sfaccettature della sua personalità che è impossibile sintetizzare, ma Rami/Feddie ci propone una versione credibile dell’artista, immaginandosi cosa potrebbe provare un personaggio del genere, schiavo del suo talento, e mettendolo in scena. A supportarlo una cornice ponderata, che si distanzia dai compitini biografici alla Jobs con Ashton Kutcher. Durante un dialogo decisivo, Mercury afferma di essere nato per fare il performer e dare alla gente ciò che vuole. Ecco, abbiamo avuto il Freddie che volevamo, in grado di esistere da solo e non sminuire il mito dell’originale. Ce ne fossero di marchette così.