Con parecchio ritardo, settimana prossima arriverà anche nelle nostre sale il nono film di Quentin Tarantino, C’era una volta… A Hollywood. Siamo stati all’anteprima stampa e questa è la nostra recensione.
di Cristiano Bolla
Trent’anni di carriera, nove film all’attivo. L’anomala e scarna filmografia di Quentin Tarantino è da sempre surclassata dal clamore mediatico che accompagna ogni suo nuovo film, al quale basta il suo nome per avere già tutta la pubblicità e l’appeal necessario. Tarantino è tra i pochi registi che, senza ancora appeso la cinepresa al chiodo, possono già essere considerati fondamentali nella storia del cinema: da Reservoir Dogs a Inglorious Bastards, da Pulp Fiction a The Hateful Eight, la sua firma è garanzia di qualità, interesse e valore artistico.
Per questo motivo C’era una volta… A Hollywood (in originale Once upon a time… In Hollywood) era molto atteso anche da noi: dopo aver debuttato a Cannes ed essere uscito negli States in estate, finalmente sta per uscire nelle sale italiane. Com’è? Completamente diverso dagli altri e insieme estremamente tarantiniano. Andiamo a spiegare.
Per ammissione dello stesso Quentin Tarantino, C’era una volta a…Hollywood è il suo Roma, nel senso di film estremamente personale che punta a far rivivere quelli che sono i ricordi d’infanzia del regista e sceneggiatore. In scena non l’ambiente domestico di Città del Messico, ma la Hollywood di fine anni ’60, fatta di vecchie star western, programmi tv e scossa dalla vicenda di Sharon Tate e la Famiglia Manson. Non è una colpa del film, ma sicuramente a noi, cresciuti in Italia negli anni ’90, è preclusa la comprensione di una buona parte di riferimenti e atmosfere. Tarantino ha preso le proprie memorie e le ha messe in scena, la sua personalissima visione e sensazione di quegli anni. In questo senso bisogna alzare le mani: forse non siamo i migliori per poter valutare quanto accurata e ben dipinta sia la Hollywood degli anni ’60. Possiamo, però, concentrarci sulla storia che Tarantino ha scelto per portarci nel suo mondo.
La storia è quella di Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), star di una serie western anni ’50 e ora costretto a fare i conti con un probabile declino della sua carriera, e della sua amicizia con Cliff Booth (Brad Pitt), stuntman ora più impegnato nel ruolo di tuttofare di Dalton. A fare da sfondo ai tre giorni scelti da Tarantino per raccontarci la vicenda, ci sono i vicini di casa di Dalton: Roman Polanski e soprattutto Sharon Tate (Margot Robbie), uccisa insieme al suo bambino ed altre persone dagli adepti di Charles Manson.
Lo stesso Tarantino, nelle varie interviste, ha dichiarato di aver avuto chiari prima i personaggi, psicologia e profondità, e solo poi ha pensato alla storia in cui inserirli, creando questa “tre giorni nella vita di” un attore, il suo stuntman e l’attrice/moglie del regista più in voga di quegli anni. Per noi, pubblico, la storia di Sharon Tate è quella che accende subito i campanelli d’allarme: ogni sua scena infatti viene letta alla luce della sua vicenda personale, cerchiamo di cogliere ogni riferimento alla cronaca. In questo senso la scena più interessante, anche a livello semiotico, è quella in cui il personaggio Sharon Tate guarda, al cinema, la vera Sharon Tate recitare in un suo film, un momento meta-cinematografico che dà una direzione precisa al film.
Nel presentarci questo incastro di finzione e realtà, non solo nella vicenda di Sharon Tate ma anche nella carriera di Rick Dalton dai western americani fino a quelli di Sergio Corbucci, Tarantino si affida nella prima parte ad un montaggio abbastanza frizzante, fatto di flashback a schiaffo e jump cut dal risultato a volte esilarante, altre volte invece risulta un po’ pasticciato o meglio fan sembrare Tarantino molto esaltato e sovraeccitato dal volerci mostrare tutte quelle belle cose che per lui contano molto. Nella seconda parte, invece, quando la realtà sembra voler prendere il sopravvento e entriamo più in contatto con la Famiglia Manson e la storia sembra seguire inesorabile il suo corso, ecco che Tarantino si “imbastardisce” di nuovo e, come in Inglorious Bastards, la finzione vince sulla realtà. Similmente a quanto fatto in quel film, infatti, anche la storia vera di Sharon Tate e la Famiglia Manson viene riletta in maniera diversa, non per forza ancorandosi alla realtà ma prendendo una piega più… tarantiniana.
Questa mossa dà un tocco di romanticismo insolito per Tarantino, ma fa capire esattamente il significato fiabesco del titolo: nella sua Hollywood fatta di attori che cercano di restar sulla cresta dell’onda, c’è spazio per quel lieto fine da favola che è stato invece negato nella realtà. Insolito, ma è ciò che dà sostanza e interesse al film, che lascia decisamente qualcosa alla fine.
C’è violenza? Poca, ma buona. C’è scurrilità? Molto poca. C’è un po’ di sano feticismo per i piedi? Qualcosina sì. Raccontato così sembra essere uno strano film per essere diretto e scritto da Quentin Tarantino, eppure il suo nono (e penultimo, stando alle dichiarazioni) film è la summa di quanto gli è più chiaro, di quanto l’ha probabilmente segnato durante l’infanzia. È una visione personale che, pertanto, può anche lasciare un po’ di amaro in bocca, sciacquato via da un finale curiosamente romantico.
Nota a margine: la sensualità di Margaret Qualley, che interpreta un’adepta della Famiglia, va dichiarata o patrimonio universale o registrata come arma letale. Altro che i pugni di Bruce Lee…
Non vedo l’ora di andarlo a vedere! Comunque l’ultima frase sulla Qualley mi ha fatto morire dal ridere (e ti do anche ragione).