GHOST STORIES – Il fantasma di un film

Due bei corti sul paranormale infilati a forza in un lungometraggio.

di Alessandro Sivieri

Grazie alla cosiddetta reality television l’investigazione dell’occulto è diventata spettacolo, con programmi dove team di cacciatori di fantasmi si avventurano in luoghi infestati e sedicenti medium parlano delle proprie esperienze con il mondo dei morti. Se da una parte ci sono ciarlatani seriali, dall’altra abbiamo chi si adopera per smascherarli, approcciando con razionalità quelle vicende in odore di paranormale che infestano i tabloid. In questa categoria rientra il protagonista di Ghost Stories, il professor Philip Goodman (Andy Nyman, anche co-regista) docente di psicologia che nel suo show mette alla berlina illusionisti e impostori che lucrano sulla credulità popolare. Animato da un piglio scettico e oppresso dalla solitudine, Goodman viene chiamato a indagare su tre casi di fantasmi rimasti irrisolti. Raccogliendo appunti e testimonianze, l’uomo scopre dei retroscena che metteranno alla prova la sua razionalità. Realtà e fantasia si confondono, mentre alcuni tasselli del suo passato vengono alla luce per dare forma a una sconcertante rivelazione.

La pellicola di Nyman e di Jeremy Dyson, accolta favorevolmente dalla critica, rispolvera l’affezione europea per le storie di spettri e la colloca nell’odierna provincia inglese, fatta di brughiere, foreste nebbiose e complessi industriali. Già nella prima parte l’opera svela la sua natura antologica, presentando episodi ben distinti per ritmo e location, come se fossero gli atti di una commedia teatrale (e in fondo l’origine di Ghost Stories è proprio questa). Le peripezie del dottor Goodman diventano quasi accessorie ed egli stesso si può considerare uno pseudo-protagonista, un vettore con il compito di traghettarci da un segmento narrativo all’altro. Certo, i tre casi incompleti presentano dettagli visivi e messaggi subliminali ricorrenti, che nell’epilogo confluiscono in un gigantesco plot twist, ma domina la sensazione di una manciata di corti horror ben riusciti intorno ai quali è stato costruito forzatamente un film.

I primi due aneddoti spettrali spiccano sul resto della produzione per qualità e potenziale orrorifico. Inizialmente il guardiano notturno di un ex-manicomio, solo e indifeso, diventa preda di sinistre manifestazioni. In seguito un ventenne problematico si ritrova a guidare all’impazzata in una proverbiale selva oscura, finendo per investire accidentalmente una creatura demoniaca. Gli immancabili jump scare sono dosati sapientemente e un paio di momenti fanno gelare il sangue. Viene da chiedersi perché gli autori abbiano scelto di incastrare questi due segmenti in un mosaico traballante invece di distribuirli in modo indipendente, o di optare per un diverso formato produttivo (come una miniserie).

L’ultimo episodio vede l’arrivo di Martin Freeman, ex-Bilbo Baggins in tweed che sfoggia un’ammirevole parlantina e un vasto campionario di smorfie. Sulla sua performance si adagia la trama concentrica, che assottiglia volutamente il confine tra la realtà percepita dal protagonista e i casi su cui ha investigato finora. Dopo una trascurabile parentesi nel loft infestato di Freeman, quest’ultimo diventa a tutti gli effetti un istrionico Virgilio che ribalta le certezze dello spettatore, svelando il significato degli indizi disseminati per la pellicola: il professor Goodman vive in un contesto spazio-temporale diverso da ciò che crediamo e le visioni intermittenti rappresentano un dilemma irrisolto, il suo senso di colpa.

Il colpo di scena tenta confusamente di allacciare ogni filo per raccontarci dei trascorsi di cui non sentivamo il bisogno: un rimorso adolescenziale dal manierismo kinghiano, tra le malefatte dei bulli e la fuga dalle proprie responsabilità, che ha segnato il malcapitato Goodman per sempre. L’epilogo, nel suo immobilismo ambientale, conferma uno svolgimento affine a una pièce teatrale, dove i comprimari ricompaiono dopo essersi “cambiati d’abito” dietro le quinte. Ognuno di essi fa il suo rituale cameo per dirci “Ecco perché mi hai già incontrato!”, ma l’unica nota di gusto persistente è quella dei siparietti paranormali assaporati mezz’ora prima. La componente thriller viene diluita con troppa veemenza in un limbo psicanalitico privo di mordente, come se dopo due antipasti squisiti dovessimo affrontare una cena insipida fino al dessert. Ecco che il risveglio della coscienza ha paradossalmente mandato in coma il terrore.

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