Recensione del secondo film di Casey Affleck come regista.
di Matteo Berta
In un mondo post-epidemia, flagellato da un virus che ha quasi del tutto cancellato il genere femminile, un padre cerca disperatamente riparo per la luce dei suoi occhi.
Casey Affleck ci racconta il film con la stessa padronanza con cui il suo personaggio racconta le storie a sua figlia. Le narra di un mondo vero, senza menzogne e senza erigersi a figura di riferimento inscalfibile, perché le sue debolezze vengono messe in gioco per tutto il minutaggio e sono importanti per valorizzare il collante del rapporto con la figlia e soprattutto con lo spettatore. Non sempre gli attori riescono a gestire al meglio il doppio ruolo, ma in questo caso Affleck dimostra il contrario, perché essere all’interno di una sua storia, gli ha permesso di poterla raccontare al meglio.
Light of my life è un film molto statico, fotograficamente quasi geometrico, la regia è molto evidente, è difficile trovare degli elementi dalla labile interpretazione. Il messaggio arriva allo spettatore senza fare troppe deviazioni. La bellezza di questo racconto sta nel non chiarificare un contesto ambientale definito, ma nello stesso tempo lo spettatore sa esattamente ciò che deve sapere e non sente la necessità di acquisire nuovi elementi per poter vivere appieno l’emotività della storia.
La civiltà di questo film “post-apocalittico” è cristallizzata e si esprime attraverso un punto di vista neutro con cui la storia viene raccontata, non vedrete scene da isteria di massa in stile Guerra dei Mondi, ne eccessivi punti di non ritorno alla The Road, ma vi sono ugualmente situazioni ansiogene dettate più da una storia imprevedibile, ma che sa prendersi i suoi tempi.
I dialoghi tra i due protagonisti sono l’essenza del racconto, entrambi cercano di capire e gestire le situazioni attraverso il continuo interscambio di “raccomandazioni”. Il padre e la figlia hanno bisogno l’uno dell’altra per poter sopravvivere. Anna Pniowsky interpreta Rag e regge perfettamente il ruolo di fianco a un ormai scafato (e premio Oscar) attore come Affleck. La giovane attrice riesce a incarnare perfettamente il personaggio scritto dal regista, perché non risulta semplicemente come una spalla del protagonista, ma sa giocare sui contrasti così come nel linguaggio non verbale e rispecchia perfettamente l’animo del film: una pellicola che preferisce vivere di sottrazioni.
Light of my life è un film potente, sa essere commovente ed emotivamente disturbante, il tutto mostrato con un’essenzialità difficile da trovare nella massificazione di sequenze concitate tipiche del genere survival.
Qui la nostra reazione a caldo appena usciti dalla sala: