LE MANS ’66 – Lo sport contro il marketing

James Mangold e l’allegorica sfida tra la Ford e la Ferrari.

di Alessandro Sivieri

Dopo il successo stellare di Logan, James Mangold riconferma la sua solidità direttiva, mettendo sul piatto un film di brividi a quattro ruote che piacerà anche a chi non è un cultore delle corse automobilistiche. L’occasione è la storica 24 Ore di Le Mans del 1966, con un’ampia porzione di script dedicata agli eventi che la precedettero. Parliamo della disputa tra due celebratissime case produttrici: l’americana Ford e l’italiana Ferrari (oltreoceano la pellicola si intitola proprio Ford v Ferrari). Dietro consiglio del suo addetto al marketing Lee Iacocca (Jon Bernthal), l’indiavolato Henry Ford II (Tracy Letts) capisce che per competere con la rivale italica a livello di immagine è necessario progettare auto da corsa e vincere nei circuiti europei. La Ford produce milioni di veicoli e ha un capitale spaventoso, ma a mancarle è quel sentore di ricercatezza e artigianalità che contraddistingue le auto della Ferrari, vere e proprie icone pop. Insomma, bisogna sbarcare di nuovo in Normandia, questa volta sugli pneumatici anziché sui cingoli.

L’uomo giusto per La grande sfida è il progettista Carroll Shelby (Matt Damon), ex-pilota già vincitore a Le Mans nel ’59 e ritiratosi dalle gare per problemi cardiaci. Quest’ultimo lavorerà fianco a fianco con il pilota e meccanico Ken Miles (Christian Bale) per dare vita a una vettura in grado di rivaleggiare con i bolidi di Maranello… la mitica Ford GT40. Pur abbondando di dettagli tecnici e sessioni andrenaliniche, la scrittura si focalizza sulla relazione simbiotica tra i protagonisti, accomunati dalla passione per la velocità. Matt Damon ha l’età e il piglio perfetti per interpretare un pilota consumato ma ancora giovanile, costretto a un ritiro prematuro. Un’enorme fetta di schermo se la mangia Christian Bale con il suo Miles, eccentrico, perfezionista e poco incline a rispettare le regole. Per l’impostazione della mimica Bale va a pescare dal passato, in particolare dai personaggi interpretati in The Fighter e La grande scommessa: il suo pilota è un genio con lo sguardo apparentemente perso nel vuoto e rigidamente chiuso nei suoi schemi mentali. Qualunque manager lo provochi, viene investito dalla sua graffiante ironia.

Il cast di supporto si prende lo spazio essenziale, dall’orgoglioso Enzo Ferrari di Remo Gironi al “colletto bianco” Josh Lucas, nel ruolo di uno stronzetto come non si vedeva dai tempi dell’Hulk di Ang Lee. Sull’asfalto rovente si scontrano caratteri profondamente diversi, al lavoro su un’idea comune, tra colpi bassi e spirito di cameratismo. Di primo acchito si percepisce il patriottismo di stampo imprenditoriale fordiano, insieme al sogno americano realizzato di un pilota reietto che si rimette in gioco. Ma non c’è solo questo: capiamo come sport ed esigenze pubblicitarie non sempre vadano d’accordo e come gli amministratori in giacca e cravatta, ignoranti in materia, prendano a volte decisioni contro il buon senso e la dignità di una competizione. Parallelamente alle gare si consuma una guerra fredda tra gli addetti ai lavori e gli sponsor, determinati ad avere l’ultima parola. Senza sminuire l’importanza di un traguardo tagliato, vengono mostrati i lati oscuri della vittoria e l’onestà della sconfitta.

In breve, sono stereotipati gli italiani laccati che gesticolano, i francesi con l’ubriacone sotto casa, ma nemmeno gli statunitensi e la Ford stessa escono indenni dalla lente di ingrandimento del film, perché il denaro cerca di comprare ogni cosa, incluso il talento. Come viene detto a Ken Miles nel primo atto, “In questo paese il cliente ha sempre ragione!”. Una metafora che bacchetta le logiche produttive di una Hollywood omologante, priva di coraggio. Sul piano visivo parliamo di un’opera che fa scintille: vengono usati veicoli reali, relegando la CGI alle fasi più concitate, e sembra davvero di trovarsi nell’abitacolo con Christian Bale mentre spinge un prototipo a centinaia di chilometri orari. Il montaggio mai troppo frettoloso, la fotografia senza fronzoli e il sound design ci fanno assaporare le gomme stridenti e il rombo dei motori, che sovrasta le musiche di Marco Beltrami.

Meno spettacolare e ritmato rispetto a un Rush di Ron Howard, questo Le Mans ’66 si prende il tempo necessario per studiare i personaggi e miscelare un cocktail di velocità, resistenza e concentrazione, che poi è la formula necessaria per vincere una corsa di 24 ore. Bale e Damon insieme esorcizzano ogni rischio di noia, dipingendo due comprimari con i quali è facile empatizzare. Volendo cercare il pelo nell’uovo, il terzo atto si protrae più del dovuto, sorpassando un paio di momenti già perfetti per la chiusura. Una scelta che non toglie pathos ma non aggiunge aspetti narrativi rilevanti (se non ribadire la valenza simbolica di una chiave inglese). I fatti storici, romanzati per necessità cinematografiche, si fanno portatori di una riflessione su ciò che separa le analisi di mercato dalla passione di chi si sente vivo a 7000 giri al minuto. Se avete due ore e mezza a disposizione, parcheggiatevi di fronte a un’avventura classica, con risvolti attuali, che soddisferà tanto i profani quanto i feticisti da carrozzeria.

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