Il segreto di Arendelle si tinge di autunno.
di Alessandro Sivieri
Frozen è stato uno dei più autentici successi della Disney post-2000, e non solo per la quantità delle visualizzazioni di Let it go su YouTube. Di ambientazione nordica, con chiare ispirazioni a La regina delle nevi di Hans Christian Andersen, il lungometraggio di Chris Buck e Jennifer Lee si è distinto per un lato sonoro memorabile, piacevoli intuizioni visive e la compresenza, finora inedita, di ben due principesse sullo schermo, animate da caratteri differenti e per nulla bisognose di un principe azzurro che sistemi le cose con un bacio. I paradigmi scritturali di un villain assoluto, di un’epica lotta tra bene e male o di un amore ostacolato vengono accantonati in favore dell’intimismo e della costruzione identitaria delle giovani Elsa (Idina Menzel) e Anna (Kristen Bell), bisognose di riallacciare il loro rapporto familiare e di scoprire chi sono realmente. Risolte le incomprensioni e con Elsa saldamente alla guida del regno di Arendelle, eccoci di fronte a un’avventura che chiarifica gli enigmi del passato.
Togliamoci subito i ghiaccioli dalla scarpa: le maggiori debolezze del sequel risiedono nell’incipit e nell’epilogo. Si inizia con le sorelle ancora bambine, intente ad ascoltare sognanti i genitori mentre raccontano una fiaba a testa per gettare le basi di un mistero che monopolizzerà la trama. L’uso puramente strumentale di mamma e papà apre a un flashback sulla loro giovinezza, dove emerge una qualità visiva piuttosto scadente. Ambienti poco curati e texture a risoluzione non proprio ottima fanno da contraltare alle animazioni di una battaglia campale che risultano al di sotto dello standard disneyano contemporaneo.
A dire il vero tutta la parte introduttiva ambientata ad Arendelle denota paesaggi scarni e una carente direzione visiva, come se si trattasse di un prototipo per il primo film o di un remake a buon mercato chiamato Fredden. Passeggiando per il villaggio felice, in odore dei “Bonjour!” de La bella e la bestia, veniamo accompagnati da un segmento musicale posticcio con testi degni di un gruppo christian rock. Che diamine, è un film per famiglie, ma c’è un limite al rendere grazie al cielo per la quotidiana rinascita organica e spirituale! Poi una minaccia a base di elementi primordiali si abbatte sul regno, costringendo il rodato nucleo di protagonisti a un cammino verso l’ignoto. Mai un’apocalisse fu più propizia!
Elsa avverte un richiamo sconosciuto, una voce da sirena che la attira lontano, e capisce che per salvare Arendelle dovrà svelare le origini dei suoi avi e della sua magia. Superati i confini del regno, sembra che la produzione abbia recuperato il budget e le idee: colori ammalianti, scenografie curatissime, effetti atmosferici e fluidità nella messa in scena. L’ingresso in una foresta incantata, teatro nebbioso di un antico conflitto, è un colpo d’occhio notevole e rappresenta l’ingresso dei personaggi in location (ed emozioni) imperscrutabili. Il bosco in sé non è originalissimo e le foglie che danzano sospinte dal vento ricordano a più riprese Pocahontas. Quando incontriamo una tribù di indigeni, esperti di esoterismo e guidati dal rispetto per la natura, manca solo che salti fuori Nonna Salice con un consiglio dei suoi. Il mood autunnale lascia spazio a luoghi più remoti, mistici e dalla fotografia desaturata, riflesso paesaggistico di speculazioni adulte.
I protagonisti sono cresciuti e devono vedersela con la difficoltà del cambiamento: Elsa non ha ancora completato la sua formazione come individuo e quella liberazione corporea che aveva iniziato nel capitolo precedente. È guidata dall’istinto verso un luogo che le appartenga veramente. Anna non si separa dalla sorella e teme di perdere la stabilità a lungo anelata, finendo per sviluppare un’ansiosa dipendenza affettiva, sulla scia di Ralph Spaccatutto 2. Sorprendente l’evoluzione del pupazzo Olaf (Josh Gad), essere sovrannaturale e onnipresente spalla comica. A livello concettuale è ancora un simpatico idiota e le sue gag mantengono una componente fisica, ma è del tutto trasformato a livello dialogico, in quanto più vecchio e saggio. Sfoggiando un lessico di tutto rispetto, riflette in modo talvolta involontario su temi cardine come la morte, il distacco e il senso di colpa. In una divertentissima scena riassume a degli estranei gli accadimenti del primo film, interpretandoli con piglio dissacrante. Un’autocitazione piacevole e che non gioca sporco. Il più svantaggiato della comitiva è Kristoff (Jonathan Groff), impacciato e passivo, che fallisce nella sua proposta di matrimonio ad Anna, in stile Bianca e Kristoff nella terra delle renne.
Nell’economia della storia i personaggi secondari trovano lo spazio appena sufficiente per fornire informazioni, annullando possibili sottotrame. La spiegazione della magia e degli spiriti elementali viene approfondita ma rimane macroscopicamente sul vago, per concentrarsi sul quartetto principale (più il peloso Sven) e sulle loro dinamiche relazionali. Per nostra gioia ci sono un paio di momenti monster davvero validi: Elsa fraternizza con un animaletto fiammeggiante e puccioso, tipico della casa produttrice, che risulta gradevole senza elevarsi ad accompagnatore fisso. Più interessante l’incontro con dei giganti di pietra, solenni quanto quelli di Shadow of the Colossus, insieme al tentativo di domare un cavallo acquatico, in una sequenza notturna decisamente riuscita. Ok, tutto bello, però cosa diciamo delle canzoni?
Let it go, ma anche no.
Le esibizioni da musical sono frequenti, talvolta a discapito del ritmo, ma non hanno l’incisività del primo episodio. Le canzoni Disney sono tradizionalmente movimentate e utili a stratificare il pensiero dei protagonisti: pensiamo ad Aladdin, dove ci si sposta da un punto A a un punto B condensando una bella fetta di storytelling in strofe accattivanti. In Frozen 2 si cerca di replicare il successo dell’indimenticabile Let it go, inciampando su una formula meno equilibrata. Passata la canzone cringe ad Arendelle, fanno capolino siparietti che riassumono pedissequamente l’accaduto senza lasciare il segno. Kristoff, narrativamente disoccupato, si prodiga in un’evidente parodia delle canzoni pop amorose, intuibile all’esame visivo, mentre Elsa dà il meglio nel segmento di Into the Unknown, la più efficace del catalogo, dove la sua voce si intreccia con il richiamo della cantante norvegese Aurora.
Il finale, affrettato e zuccheroso, risolve i crucci sentimentali nel più classico dei modi e sembra riportarci nella zona di comfort. Ognuno ha trovato il suo posto nel mondo e va bene così, ma sul piano emotivo tramonta l’intensità di un atto centrale maturo e a tinte dark. I lampi di freschezza nella scrittura si fanno ricordare con piacere, in primis il ruolo dell’acqua, dotata di memoria e significativa quanto la gravità in Interstellar. Senza dimenticare il target fanciullesco, si poteva aggiungere un briciolo di coraggio e non soffocare l’atmosfera seriosa tra un incipit qualitativamente inferiore e una conclusione che sciorina finte separazioni e un cambio di acconciatura. Spingendo sul world building, come fece efficacemente Dragon Trainer 2 o anche Pirati dei Caraibi 2 (espansione ambientale, approfondimento della mitologia, nuovi personaggi), si trascurano le rifiniture che avrebbero reso Il segreto di Arendelle all’altezza, se non superiore all’originale.
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