Recensione di Full Time, il film di Eric Gravel presentato a Venezia 78 nella categoria “Orizzonti”.
di Matteo Berta
Eric Gravel ci racconta un dramma quotidiano di una madre in lotta contro un contesto che la vorrebbe far affogare in un mare di responsabilità e ingiustizie. In modo speculare a Muccino con La Ricerca della Felicità, il regista di À Plein Temps ci toglie il respiro cercando in tutti i modi di farci empatizzare al massimo con la protagonista sofferente, ma a differenza dell’autore italiano, la maggiore emotività viene espressa con il ritmo incessante e molto calibrato.
Seguiamo la storia di Julie nel corso di una settimana, iniziando la pellicola con il risveglio all’alba della donna. Da quel momento in poi non avremo (noi e lei) un attimo di pausa, la sua vita intensa si intreccia con la nostra apparente immobilità nel buio della sala e inevitabilmente ci verrebbe voglia di alzarci in piedi e in qualche modo aiutarla, che sia riparare una tubatura o timbrare il cartellino per lei sul posto di lavoro.
La fotografia ci racconta una narrazione “instabile” alla Paul Greengrass, e la camera a mano rappresenta proprio la caducità delle faccende di Julie, che si trova costantemente in pericolo di caduta definitiva. La donna deve badare ai figli e al proprio lavoro, inserita in una città che è ben lontana dalle cartoline idilliache che spesso vediamo al cinema, per quanto riguarda Parigi.
La regia è chiara, il punto di vista scelto è quello della donna, ma non in senso stretto attraverso un POV: siamo vicini a lei, spesso indugiamo nelle pieghe del suo volto, che fanno trasparire stress e simulazioni di controllo sulle situazioni. Inquadrature instabili ravvicinate che non lasciano spazio a tutto il resto.
Il “tempo pieno” di questo film viene riempito dalla straordinaria performance dell’attrice protagonista Laure Calamy, seguita in modo assiduo dalla creatività della montatrice Mathilde Van De Moortel, che assieme alla compositrice Irène Drésel garantisce una descrizione del personaggio a livello interiore-esteriore e diegetico-extradiegetico, senza perdere nemmeno un’emozione della vicenda. Non abbiamo croissant o vie en rose in questa Parigi alienante, ma una cruda realtà che racconta la difficoltà della metropoli, soprattutto nel raggiungerla e nell’abbandonarla per chi vive in periferia, perfetta metafora per la stessa “sindrome di Parigi” che tende a dipingere un mondo idilliaco che in realtà si mostra come un “non luogo” da sogno fatto di contraddizioni sociali.
Il sogno della protagonista non è nulla di velleitario: Julie ricerca solamente la tranquillità, che si estingue in qualche attimo raccontato con parsimonia dal regista quando si concede un bagno caldo (spesso interrotto dalle necessità dei figli) o quando arriva il meritato riposo notturno. Nonostante la vita di Julie possa sembrare un inferno, non è la felicità che le manca, quella riesce a carpirla dagli affetti, ma la ricerca spasmodica di tutti gli attori in gioco (compresi gli spettatori) è quella della stabilità, che viene raggiunta, almeno per lo spettatore, al termine del film.