Dimenticatevi suore nane che fumano e canguri che giocano a basket: il coming of age di Sorrentino è una storia di cuore ed emozioni.
di Cristiano Bolla
Napoli, anni ’80. A un’affollata fermata di un autobus che non sembra arrivare mai si accosta un’auto d’epoca. Il finestrino dei posti dietro si abbassa e una figura misteriosa, ma immediatamente viscida, attira l’attenzione di una donna estremamente procace (Luisa Ranieri). Abito attillato, capezzoli turgidi e in vista, è l’incarnazione della sensualità napoletana. Con la promessa di un rimedio contro l’apparente infertilità, viene convinta dall’uomo a seguirla in un palazzo ormai fatiscente: il lampadario è crollato a terra, le pareti sono scrostate e persino il pavimento è distrutto. Arriva o’munaciell, una figura della mitologia campana (presente anche nel nostro Bestiario d’Italia), un bambino sfigurato vestito con un semplice saio. Baciandogli la testa, la bella Patrizia potrà essere curata. Mentre si china, l’uomo le dà una vistosa ed energica palpata di culo. È in questo momento, proprio con questa manata, che Paolo Sorrentino inizia il suo film.
In quell’istante, È stata la mano di Dio diventa diverso da ogni altro film del regista Premio Oscar, quantomeno di quelli dell’ultimo ciclo. Non è La Grande Bellezza, non è Youth e neppure Loro o The Young Pope: quel gesto dà un taglio netto al lirismo spinto e spesse volte esasperato di Sorrentino. È una dichiarazione di intenti, un atto politico (per citare una frase del film detta in riferimento al celebre gol di Maradona che il dà titolo al film) con il quale si discosta da quella sensibilità estremamente appagante per la vista, ma meno per il cuore. La storia di Fabietto Schisa (Filippo Scotti) e della sua famiglia non è fatta di spiritelli bambini, di suore nane che fumano o di canguri nei giardini del Vaticano, non ci sono giraffe o personaggi ben oltre il bizzarro, ma solo la naturale caricaturalità di una normalissima famiglia.
Con questo film, Paolo Sorrentino si riconnette alla sua infanzia: è facile immaginare che per le scene dei pranzi in famiglia abbia attinto a piene mani ai propri ricordi, al proprio vissuto in quella Napoli che percepiamo con gli occhi e con le orecchie nella lunga ripresa che apre il film. Rumori, voci e sensazioni che hanno a che fare con una estrema quotidianità, fatta degli scherzi della madre Maria (Teresa Saponangelo),della zia zitella che si presenta assieme a un improbabile nuovo fidanzato molto più vecchio di lei e della pulsione giovanile a crescere, a uscire con una ragazza, a fare sesso per la prima volta.
Uno dopo l’altro, i quadri di È stata la mano di Dio si allontanano sempre più da quelli bellissimi ma prettamente lirici che hanno contribuito a dare significato all’aggettivo sorrentiniano. Il film si riempie di emozione, di amore e persino di un dolore vivo e struggente, che catapulta storia e spettatore in una dimensione privata eppure condivisibile. È un Sorrentino di cuore quello che guida il racconto in È stata la mano di Dio, legandolo all’importanza quasi metafisica che Diego Armando Maradona ha rappresentato per la città partenopea. Perché Maradona è Maradona anche se non si tifa Napoli, così come la vicenda della famiglia Schisa può toccare tutti, è una tragedia nazional-popolare perché estremamente umana.
In una delle sequenze più belle e felliniane, Fabietto Schisa discute col regista Antonio Capuano, che con aggressività insiste a chiedergli se abbia o no qualcosa da raccontare. Il dolore, questo può dare al mondo Fabietto, la sua triste esperienza di giovane vita e quel senso di incommensurabile vuoto che lo opprime e che in qualche modo sente che debba essere tirato fuori. Ma questo non basta, avverte Capuano, perché come ci ha già ricordato il padre del protagonista (Toni Servillo), il cinema serve a distrarre dalla realtà, ma la realtà è deludente e non può quindi riconfluire nel cinema stesso con facilità. In questo passaggio c’è forse l’idea stessa di questo strano ma efficace Sorrentino: È stata la mano di Dio è un canto personale ma non del tutto autobiografico, altrimenti non potrebbe arrivare con la stessa efficacia.
Sorprendente nel suo romanticismo scevro da lirismo, meno potente nelle immagini quanto più ficcante nelle emozioni, Paolo Sorrentino ha confezionato un film che può arrivare al Leone d’Oro e agli Oscar, ma nessun premio varrà quanto la bellezza di aver provocato un’emozione scomoda ma necessaria, tra una lacrima d’amore e una di dolore. Se si intende il cinema come racconto dei sentimenti, come tentativo di emozionare lo spettatore con storie sempre diverse eppure uguali nella sostanza e negli intenti, allora È stata la mano di Dio può essere considerato il suo capolavoro.