No, ma davvero hanno portato a casa la pagnotta?
di Alessandro Sivieri
Buonsalve, sono il tipico protagonista di un Battle Shonen. Ho un sogno da realizzare, un’idea che gli altri considerano impossibile, e lotto con tutto me stesso per riuscire a realizzarlo, scontrandomi con avversari via via più pericolosi. Ho una forza sorprendente ma il mio più grande potere è il mio carisma, la capacità di circondarmi di persone che credono in me e che a loro volta inseguono una grande aspirazione. Sono uno scemo patentato, anche se ho dei lampi di saggezza e di insospettabili abilità tattiche. Mangio come un treno e l’unica cosa capace di turbarmi, oltre alla mancanza di cibo, è qualcuno che fa del male ai miei compagni; in quel caso mi incazzo come una bestia e rischio tutto pur di fare giustizia, arrivando talvolta a un passo dal mostrare il mio lato oscuro e diventare molto simile al mio avversario. Può capitare che abbia un rivale/fratello mancato che è più serio di me e con il quale amo confrontarmi, senza contare la marea di orfani e traumatizzati che sconfiggo condividendo le esperienze di vita piuttosto che i pugni. Carissimi lupi di mare, abbiamo un Re dei Pirati.
E dire che non è facile assurgere al trono in un panorama editoriale così inflazionato: il genere Shonen ha una fetta di pubblico vastissima e fa più che altro riferimento a una fascia demografica che va dai nove ai diciotto anni, con le dovute eccezioni. Sebbene il sesso e la violenza vengano rappresentati in modo edulcorato, non mancano prodotti in cui la componente splatter e le tematiche adulte rivestono un ruolo tale da sconfinare nel territorio dei Seinen, dedicati solitamente a chi ha raggiunto la maggiore età. Dragon Ball e compagnia bella, senza rinunciare ad arti mozzati e sporadiche nudità, rientrano in quella categoria di Battle Shonen che gode di enorme successo sia in Oriente che in Occidente e che mette in risalto il viaggio dell’eroe, la presa di coscienza dei personaggi di fronte a sfide progressivamente impegnative e dilemmi morali. È passato un bel po’ di tempo dall’esordio di Goku & soci, e l’ultimo ventennio ha visto il dominio di un nucleo di opere che comprende Naruto, Hunter x Hunter, Bleach e… One Piece.
Le diramazioni di questi franchise, nati in forma di manga, comprendono serie animate, videogame, carte collezionabili e qualunque genere di gadget vi possa venire in mente. Attenzione: commerciale non significa per forza di scarsa qualità, così come il target adolescenziale non deve spingere il pubblico più grandicello a guardare con superficialità a questo genere di storie. Non si scherza con gli Shonen. I loro personaggi attraversano un cammino di crescita, imparano a metabolizzare la perdita e il dolore, prendono in mano il proprio destino. Evidentemente il destino di Eiichiro Oda era diventare l’autore del manga più venduto di tutti i tempi. Debuttato nel lontano 1997, con più di 500 milioni di copie vendute all’attivo, One Piece è stato capace di coinvolgere più generazioni di lettori ed è ancora distante dal capitolo finale. Lungo la strada, il protagonista Monkey D. Luffy ha riunito intorno a sé una ciurma di compagni inseparabili e punta dritto all’obiettivo di diventare il Re dei Pirati. La creazione di Oda esalta il concetto di pirateria come massima espressione della libertà individuale: ci sono pirati saccheggiatori e tagliagole, ma l’ideale perseguito da Luffy e soci è quello dell’avventura, del mettersi in gioco, della difesa di chi viene oppresso dal Governo Mondiale e da quei membri della Marina che applicano le leggi in modo spietato.
Il successo di Un Pezzoh è da ricercarsi nel bilanciamento tra registri emotivi che spaziano dal demenziale al drammatico: siparietti comici, momenti slapstick ed equivoci degni del miglior Akira Toriyama o anche di Go Nagai, seguiti a stretto giro da lampi introspettivi, esperienze che mettono a dura prova l’equipaggio della Going Merry (ormai rimpiazzata da un altro vascello, la Thousand Sunny). L’altro punto di forza è un universo in continua e incontrollata espansione, con nuovi personaggi, fazioni e colpi di scena che vengono continuamente introdotti nella storia. Ognuno ha le proprie motivazioni e gioca un ruolo tutto da scoprire nel grande disegno che, per quanto sembri compiere gigantesche ellissi, converge intorno al protagonista. I marine e i filibustieri che popolano One Piece hanno proporzioni impossibili, grottesche; altre volte sono uno squisito omaggio al cinema monster e alla cultura popolare. Pensiamo alla costituzione fisica di Orso Bartholomew, con il petto larghissimo e le gambe esili, pensiamo ad Arlong, Jinbe e all’intera civiltà degli uomini-pesce, o ancora all’abbigliamento del crudele Donquijote Doflamingo, ispirato al cantante francese Michel Polnareff.
La creatura di Oda è questo e molto altro, è un cortocircuito tra la mitologia dell’Oriente e la nostra eredità culturale, condito da brividi, storyline epiche e un’abbondante dose di risate. Eh sì, Uan Piezz non dimentica la sua natura Shonen e mette sul piedistallo la componente di spensieratezza che finisce diluita nell’età adulta. La recente trasformazione di Luffy (il Gear Fifth) nella versione cartacea, per quanto divisiva nella comunità dei fan, è lì a confermarci quanto il divertimento infantile sia importante per affrontare la vita. L’autore ama l’umorismo, i cartoni animati della Warner Bros. e crea poteri in grado di infrangere le leggi della fisica, adottando di conseguenza soluzioni visive il cui unico limite è la fantasia (quella di Oda o quella di Luffy, poco importa). Ciò ne fa un manga difficile da adattare. Un attimo, qualcuno ha avuto la folle idea di adattarlo? Proprio quelli di Netflix, dopo l’accoglienza tiepida di Cowboy Bebop?
Può non essere accaduto.
Sì, ottima idea, prendiamo una storia dalla durata biblica e con una caterva di comparse che è l’equivalente di un circo dei freaks, e cerchiamo pure di farne un live action passabile. Gli showrunner Matt Owens e Steve Maeda, lavorando a stretto contatto con Oda, hanno accettato la scommessa, e che tipo di prodotto ne è uscito? Qualcosa che riesci a goderti. Una bizzarra combinazione di suggestioni che, in barba ai pronostici, porta a casa la pagnotta gommosa. A fare la differenza è stato l’approccio al materiale, perché nella trasposizione di un anime hai due vie da seguire: puoi cercare un taglio realistico, incasellando la costumistica, la psicologia dei protagonisti e il corso degli eventi in un contesto lontanamente riconducibile alla contemporaneità e all’estetica occidentale; in questo caso può uscirti una bestemmia come Dragonball Evolution, o al limite I cavalieri dello zodiaco con Mackenyu, lo stesso che è stato preso a bordo da Netflix per fare Roronoa Zoro.
L’altra via è accantonare l’idea del film per una serie, con una dilatazione temporale che ti consente di esplorare al meglio i personaggi, e soprattutto di abbracciare senza riserve la natura campy, e sopra le righe di One Piece. Viene condensata in otto puntate la primissima parte della storia, che porta il nucleo primordiale della ciurma di Cappello di Paglia fino alla Grand Line, dandoci qualche assaggio di un mondo incredibilmente vasto, come quando hai terminato il tutorial di un videogame sbloccando la mappa principale. Immaginate un Geralt di Rivia che esce da Bianco Frutteto o un Paul Atreides appena entrato nei ranghi dei Fremen e avrete quella sensazione di volerne ancora una volta giunti gli end credits. Il team creativo segue i compromessi di un alto grado di devozione all’opera di Oda, ed ecco che gli abiti, le armi e gli accessori sono estremamente colorati e farlocchi. Non avrebbero motivo di esistere se non nelle tavole di Oda, in barba a qualunque principio di buon gusto, balistica ed ergonomia. Una katana tra i denti, lo spadone di Drakul Mihawk, un viceammiraglio che lancia palle di cannone a mani nude… siamo decisamente a casa.
A questo carosello dei costumi fa eco l’interpretazione enfatica del cast, che si mette di impegno per avvicinarsi all’espressività degli Straw Hat cartacei: nei manga i momenti drammatici, gli scatti d’ira e quelli di allegria sono sempre al 1000%, come se l’immaginario pubblico di un teatro dovesse sentirsi avvolto dalle emozioni dei personaggi. Non c’è gente che ride sguaiatamente per dieci secondi o maschi arrapati con l’emorragia nasale alla vista di una bella fanciulla, ma il gusto per l’istrionicità nipponica si nota, specialmente nel giovane Iñaki Godoy, calato negli ingombranti panni di Monkey D. Luffy con la benedizione di Oda stesso. Godoy se la cava egregiamente, in barba a chi si lamenta perché non combatte con i sandali, e la sua efficacia è largamente dovuta al sorriso beffardo che porta stampato sulla faccia. Proprio come il defunto Gol D. Roger, Luffy affronta i pericoli con entusiasmo e sorriderebbe perfino in faccia alla morte. Crede nei suoi obiettivi e sprona gli altri a fare altrettanto, incazzandosi come un dugongo quando viene fatto un torto ai suoi amici.
C’è da dire che il Luffy in carne e ossa è mediamente più serio del ragazzino che fa commenti completamente scollegati dalla realtà, e che più di una volta se ne esce con perle di saggezza insolitamente mature; nulla che il Luffy del manga non penserebbe, a differire sono le modalità e i tempi con cui i pensieri vengono espressi. Le lezioni di vita non suonano fuori luogo in bocca al Luffy di Godoy, che si rende “digeribile” anche da chi è a estraneo al franchise senza mancare di rispetto al suo modello. Il resto del cast è stato scelto con un ottimo intuito: Emily Rudd, la più “attempata” del gruppo (all’incirca trent’anni), è una Nami capace di conquistare chiunque, vulnerabile quando serve e assennata quando gli altri perdono la bussola; Jacob Romero Gibson è credibilissimo nelle vesti di Usop, esperto di balle e di balistica, benché il naso corto attiri le medesime polemiche delle ciabatte del suo capitano; Taz Skylar ha voluto dare ogni singolo calcio da solo, assumendo come controfigura il proprio allenatore, oltre a prendere lezioni di cucina e occuparsi del catering; Mackenyu è una questione a parte, serioso quanto lo richiede il suo Zoro e con un background di arti marziali già consolidato. Per dirne una, è figlio di Sonny “Hattori Hanzo” Chiba, definito da Tarantino il più grande attore che abbia mai lavorato nei film di botte.
Menzione speciale per i villain, che in One Piece hanno un ciclo vitale piuttosto lungo e motivazioni che vanno oltre il semplice “Sono un pirata avido e pezzodimmerda”; infatti rispuntano fuori dopo centinaia di capitoli e cambiano bandiera, a riprova del fatto che Luffy sia in grado di cambiare il punto di vista delle persone con cui entra in contatto. Su tutti i contendenti al trono di Re dei Pirati spicca Bagy il Clown, che ha la faccia di Jeff Ward con nasone e bandana: la cultura pop non è digiuna di boss criminali clowneschi e il paragone con il Joker è più scontato di Una poltrona per due a natale. Prendiamo i Joker di Heath Ledger e di Joaquin Phoenix: uno trovava divertente la sua consapevolezza nichilistica di una società destinata al caos, l’altro era afflitto da una patologia e cercava di trattenersi dal ridere, mentre il suo sogno era rendere felici le persone. Le battute di Bagy non fanno ridere nessuno e forse lui ne è consapevole, ma cosa importa quando hai un intero villaggio incatenato nel circo per applaudire?
Il clown piratesco offre un mix esplosivo di ambizione, sarcasmo e scemenza pura, promettendo nuovi siparietti con il protagonista prima di lasciare spazio ad Arlong (McKinley Belcher III), il pesce sega molto prostetico a capo di una masnada di uomini-pesce molto, molto prostetici. La produzione non si è fatta problemi a spendere nel make-up piuttosto che ricorrere al digitale, tranne in casi limite come il corpo allungabile di Luffy, e il frutto di tali sforzi, oltre alla costruzione della nave-ristorante Baratie, è una ciurma di esseri pinnati e uncanny, il sunto dell’amore di Oda per le creature mostruose. Parliamo pur sempre di attori in maschera e di conseguenza gli uomini-pesce non raggiungono il pieno potenziale acrobatico nelle scene di combattimento, limitandosi a essere qualcosa di bello da vedere ma difficoltoso da muovere. La mentalità e gli scopi di Arlong lo avvicinano al passato di schiavitù dei popoli africani nell’era coloniale, con un’aggiunta di ecologia che non stona mai oggigiorno (maledetto genere umano che inquina i nostri oceani, adesso divento un pescioide ecoterrorista!).
Chiudono il cerchio un’Alvida pervenuta per pochi istanti, un maggiordomo laccato e quello spettacolo di Mihawk: l’attore sudafricano Steven John Ward dà vita allo spadaccino più forte del mondo, un membro della Flotta dei sette che è virtualmente al soldo dei Marine ma che in concreto fa quello che gli pare. Oltre a costituire l’ispirazione e la nemesi di Roronoa Zoro, è un guerriero così potente che alla data odierna, nel manga, non ha ancora riportato una sconfitta… o un banale graffio. Mihawk, detto L’uomo dagli occhi di falco, entra in scena per una manciata di minuti ma simboleggia in pieno la formula vincente dell’intero prodotto, offrendoci un duello memorabile con Zoro, il quale ha parecchia strada davanti a sé prima di poterlo mettere in difficoltà. Ward è più ironico dell’originale, ha eleganza, carisma, e conferma la volontà della produzione di osservare, oltre al vestiario, i livelli di potenza del manga. Parliamo di un tizio che taglia letteralmente una nave in due e polverizza una flotta solo perché il suo pisolino è stato interrotto. A ciò aggiungiamo una componente sanguinosa che non trasforma certamente la serie in una gorefest… però infila tra le righe un tizio tagliato in due.
La regia e l’epica avventurosa distolgono l’attenzione da un fattore a cui abbiamo accennato in apertura e che farà storcere il naso a chi non conosce il genere, ovvero i costumi: prendete Mihawk e i suoi abiti intonsi, lo spadone con l’elsa senza un alone e le gemme colorate; prendete una canottiera, un’uniforme, non importa se a indossarla è una comparsa o Luffy appena sveglio, e noterete che non ha mezza piega. Sembra tutto uscito dalla tintoria e tenuto nel cellophane fino a mezz’oretta prima del prossimo abbordaggio. Il mood cartoonesco ci suggerisce di fare pace con la cosa, eppure la fotografia non fa che accentuare involontariamente questa sfilata di pirati perfettamente stirati. Si va volentieri di camera a mano, spingendosi quasi sulla punta del naso dei personaggi, con una profondità di campo ridotta. I primissimi piani e i dettagli consentono di enfatizzare l’emozione trasmessa in quel particolare istante e di occultare eventuali povertà scenografiche (Baratie escluso), che se ne stanno buone e sfocate in background. Peccato che il punto di vista ravvicinato ci dia il tempo di esaminare gli abiti, gli ornamenti e le armi, lasciandoci con un retrogusto da cosplay ben fatto. Non è colpa del production design quanto di una fotografia che utilizza inquadrature e movimenti improntati sul realismo, senza poterselo permettere. I campi larghi fanno miracoli, sia nell’armonia generale che nella godibilità degli scontri, dove per forza di cose fa capolino una CGI vicina agli standard di The Flash. La messa in scena, in soldoni, sfiora l’effetto Lazy Town.
I fan di lunga data potrebbero sollevare ulteriori obiezioni, chiedere a gran voce dove siano finiti i supporting character o perché diavolo Mihawk abbia sfilettato Don Krieg prima che incontrasse Luffy. E allora, dov’è questa aderenza al manga? Abbiamo percorso innumerevoli miglia nautiche parlandovi di fedeltà ai personaggi e alla lore, ma non significa che il lavoro di Netflix sia una copia carbone del One Piece che conosciamo. Non può permettersi di ricalcare pedissequamente la trama, sia per i tempi narrativi che per le questioni di budget e di età anagrafica degli attori. Sono aspetti che vanno tenuti in considerazione quando non si hanno 20 stagioni e 40 anni a disposizione per filmare un’opera titanica. Certi personaggi non vengono menzionati, altri compiono scelte differenti e compaiono quando non ce li aspettiamo. La fedeltà, questa parola magica che ha portato al successo la serie, si trova nello spirito di Oda nascosto in ogni frame. Quella strana magia per cui vediamo Luffy e Zoro deviare leggermente dal tracciato, pronunciare una frase inattesa, senza smettere nemmeno per un secondo di farci pensare che siano Luffy e Zoro in carne, ossa e cicatrici. In un circuito dell’intrattenimento dove simili tentativi falliscono già dalle basi, non è roba da poco. Per questo non stiamo lì a chiederci quali saranno le prossime mosse, quante stagioni serviranno per arrivare a Marineford o allo scontro con Kaido. Non importa a che punto si arriva ma come ci si arriva, e il come finora non ci ha deluso. C’è da sperare che gli showrunner non cedano all’hype e alla fretta, finendo come Zoro che affronta Mihawk troppo presto. Questa prima stagione non è solo un gustoso esordio, è un monito per tutti: per la Rotta Maggiore serve una bella, fottutissima mappa.