Il biopic di Nolan che ci insegna a odiare Robert Downey Jr. e a non preoccuparci.
di Alessandro Sivieri e Matteo Berta
*ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER*
Bisogna farcela entro Luglio. Mancano due ore al test. La detonazione sarà tra venti minuti. Il tempo scorre e se ne avverte la pressione. Non ha fucili e portaerei, non marcia con la svastica in bella vista, eppure sarà sempre lui il nostro più grande nemico. Ciò non toglie nulla al suo indubbio fascino. Le leggi del tempo e le speculazioni su come aggirarle sono un ingrediente di punta delle creazioni di Christopher Nolan, considerato uno dei migliori registi della sua generazione, in grado di portare in sala delle opere dal forte impianto autoriale e farle incassare come dei blockbuster (analogamente a uno Steven Spielberg all’apice della carriera). La scrittura e il montaggio sfruttano le lancette dell’orologio come un’arma per imbrigliare lo spettatore, un filtro narrativo per mettere in luce dei particolari che in uno svolgimento lineare non avrebbero il medesimo impatto. Provate a prestare attenzione al corso degli eventi in un film qualunque: spesso guidati da un punto di vista onnisciente, abbiamo una diversa percezione del tempo rispetto ai protagonisti del racconto, potendone vivere le tappe esistenziali attraverso flashback e flashforward, o assistendo a eventi che si verificano contemporaneamente in un altro luogo. Aspettate, siamo certi che stiano accadendo nello stesso istante?
È questo il bello del tempo, può ingannare sia l’osservatore che l’osservato. Le certezze che separano il diegetico dall’extradiegetico iniziano a vacillare, e non si tratta di un Oliver Hardy che cerca la complicità del pubblico con uno sguardo esasperato, si tratta di cosa pensiamo di aver visto e compreso in quel paio d’ore sulla poltroncina. Consapevole di questa formula magica e delle sue possibilità, Nolan ha reso lo scorrere dei secondi un MacGuffin fantasma della sua filmografia: pensate ai sottolivelli onirici di Inception, con la gente che ancora si sta chiedendo se quella maledetta trottola finirà per fermarsi; pensate alle amnesie di Memento, alle frontiere dell’astrofisica esplorate da Interstellar, alle inversioni di Tenet o al montaggio sonoro di Dunkirk, dove non è chiaro quando finisca una sirena d’allarme e inizi la musica di Hans Zimmer. Questa è la cifra stilistica di Nolan e bisogna dargli atto di aver reso le sue scelte produttive un marchio di fabbrica. Le trame cervellotiche, le riprese su pellicola, l’utilizzo del formato IMAX e il bisogno di ricorrere alla concretezza, limitando gli effetti digitali allo stretto necessario. Il risultato? Un cacciatorpediniere viene fatto esplodere, un aereo si schianta in un hangar e John David Washington impara a recitare in reverse, regalandoci un fantastico senso di straniamento.
Ora è il turno del biopic, territorio inedito per un autore che ci ha abituato ai thriller fantascientifici ricchi di azione. Inedite, sempre per lui, le scene erotiche non era avvezzo a girare, ma sull’utilità di queste ultime torniamo fra poco. Il fulcro di questa ennesima fatica è l’eredità di J. Robert Oppenheimer (Cillian Murphy), fisico e ricercatore che verrà messo formalmente a capo del Progetto Manhattan; sotto la sua direzione, le migliori menti sulla piazza porteranno gli Stati Uniti a costruire le due bombe atomiche che verranno poi sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Il micidiale ordigno, pensato per battere i nazisti nella corsa agli armamenti, aprirà una eterna ferita nella storia del popolo giapponese e diventerà il maggiore spauracchio della Guerra Fredda. Oggi le armi nucleari sono il deterrente per eccellenza, il massimo potenziale distruttivo raggiunto dall’essere umano, sebbene la bomba più potente mai sperimentata risalga agli anni ’60: si tratta della bomba Tsar, basata sull’idrogeno e soprannominata Big Ivan, che venne lanciata dai sovietici nel circolo polare artico. Il dispositivo fu in grado di causare danni fino a 900 km di distanza e l’energia emanata fu 1570 volte superiore a quella di Hiroshima.
Cosa sarebbero in grado di fare, oggi, le superpotenze con gli arsenali gelosamente custoditi in giro per il mondo? Un quesito che affascina e terrorizza. Le armi atomiche sono l’emblema della natura autodistruttiva dell’uomo, le cui tribù devono vivere sotto un costante senso di minaccia, fomentato da divisioni ideologiche e dalle ipotesi su chi potrebbe dare un pugno fortissimo alla scacchiera e compromettere in modo irreparabile la vita sul pianeta. I soldati continuano a sterminarsi nei teatri bellici ma la minaccia atomica rimane lì, sullo sfondo, in un gioco infantile a chi ha la bomba più grossa. È tutto un celodurismo di nostrana memoria, in cui si esibisce il missile per spingere l’avversario a non compiere mosse delle quali potrebbe pentirsi. La ricerca scientifica, affiancata dall’assenza di scrupoli, ha trasformato la nostra capacità di domare l’atomo in una reazione a catena che attende il dito sbagliato sul pulsante. È questione di tempo prima che accada? Oppy, col senno di poi, la pensava così e diceva che avremmo utilizzato qualunque ordigno purché fosse a disposizione. Il demone dentro di noi era solamente sprovvisto del mezzo definitivo, e quel punto di non ritorno è stato bruciato molti anni fa, a Los Alamos. Di questo parla Oppenheimer, dall’estate 2023 sulle vostre coscienze.
Chi si aspetta una struttura da film biografico dovrà rifare i calcoli, perché Nolan smonta nuovamente i canoni di genere e li ricombina secondo le esigenze di storytelling: conosciamo la vita e gli scheletri nell’armadio del protagonista ma le sue vicende personali sono legate alla sua dimensione pubblica e, per vie indirette, al nostro destino come specie. C’è la fase eroica, il momento delle scoperte rivoluzionarie e dei traguardi scientifici, a cui fa seguito la caduta, il tentativo di usare la propria influenza per distogliere il mondo intero dal “mostro” creato qualche anno prima. I tempi però sono cambiati e non si torna indietro, complici i nemici che il brillante fisico si è creato lungo la strada. Si percepisce fin dalle prime battute l’architettura schizofrenica di Oppenheimer, che compie ellissi temporali tra il sottogruppo di sequenze denominato “Fissione” e quello che rappresenta la “Fusione“. Il primo contiene scene a colori ed è legato alle vicissitudini intime dello scienziato, mentre il secondo è in bianco e nero – al quale il regista era già affezionato da The Following – e contiene un punto di vista più oggettivo, asettico, coadiuvato dalla differenziazione cromatica.
Nella Fusione emerge il lato da dramma processuale, filone che Nolan ha sempre dichiarato di amare, insieme al resoconto di Lewis Strauss, interpretato da un Robert Downey Jr. mandato in pensione dai superhero movie e pronto a ricordarci di essere un grande attore. Emergono di tanto in tanto i manierismi di un Tony Stark incattivito, dovuti alla notevole quantità di aspetti personali che Downey Jr. infonde nei suoi personaggi, ma in generale porta sulle spalle quasi metà film con efficacia, mostrandoci un politicante meschino e invidioso, un ometto piccolo piccolo che orchestra le sue vendette nei palazzi del potere. Lewis Strauss è un self made man, un venditore di scarpe la cui umiltà è una facciata quanto quella del “rivale” Oppy. Divenuto presidente dell’AEC, la Commissione per l’energia atomica degli Stati Uniti d’America, nel dopoguerra corteggerà un già celebre Robert Oppenheimer, offrendogli un posto da consulente nel suo team di nomi eccellenti. Il fisico, ancora scosso da Hiroshima, giocherà diversi tiri mancini a Strauss, opponendosi a questioni come l’esportazione degli isotopi e lo sviluppo della Bomba H, portato avanti dall’ex-collega Edward Teller (Benny Safdie). Inutile dire che Strauss si legherà queste piccole cose al dito fino a trasformare il suo indice in un gomitolo di lana radioattivo.
Da Iron-Man a Ommemmerd
Downey Jr. diventa a tutti gli effetti il co-protagonista e le sue scene sono a un passo dal costituire una pellicola a parte; un doppio studio del personaggio che non sempre giova al pacing di quest’opera lunga tre ore. Strauss è un arrivista, non uno scienziato, e i suoi complessi di inferiorità nei confronti dei “cervelloni” non lo abbandonano nemmeno quanto si trova a un passo dalla nomina a Segretario al Commercio da parte del presidente Eisenhower. Quello che doveva essere il coronamento della sua carriera si trasforma in una sorta di processo dove emergono le sue malefatte, in primis le sue cospirazioni per demolire la figura di Oppenheimer: anni addietro il fisico si vide negare il nulla osta alla sicurezza da una commissione che aveva tutta l’aria di un tribunale pronto a condannarlo. Vennero chiamati a testimoniare amici ed ex-colleghi, portando a galla segreti scottanti e sospetti di simpatie comuniste. Non un autentico processo, quanto una macchina del fango che puntava a umiliare il protagonista grazie a un dossier passato proprio da Strauss. A quanto pare i politicanti americani non condannano formalmente, si limitano a negare qualcosa. E se la dignità di un individuo è profondamente legata al suo ruolo, revocare quest’ultimo è l’estrema punizione.
Ironia della sorte, Strauss subisce un processo-farsa per aver messo in piedi un vendicativo processo-farsa. Sarà fuori luogo parlare di karma in una storia di formule e teoremi, eppure le conseguenze delle proprie azioni tornano sempre indietro, specie per chi si trova nella posizione di padre della bomba atomica o di futuro membro del Gabinetto. Non si può scavare così a fondo nelle leggi della natura (e della politica) senza sporcarsi. Partendo da questo approccio filosofico viene evidenziata la complementarietà dei protagonisti: non ci sono innocenti e l’uno è necessario allo spettatore per avere una visione a 360° dell’altro. Man mano che affiorano i dettagli sui test di Los Alamos, sulle presunte talpe sovietiche e sugli inattesi voltafaccia, ci accorgiamo che Strauss/Fusione offre una descrizione alternativa di Oppenheimer, quello che appariva davanti ai giornalisti e alle commissioni d’inchiesta, impedendo allo spettatore di lasciarsi risucchiare troppo nel vortice introspettivo della Fissione. Se Oppy è il profeta che inganna chiunque, incluso se stesso, Strauss è il maccartismo, è ciò che gli americani vogliono sentirsi dire. Anche la paranoia è una reazione inarrestabile, e si nutre di un idolo che viene tolto dal piedistallo e fatto a pezzi dalla collettività per autoassolversi.
Più alto il piedistallo, più forte la caduta. Torniamo quindi alla Fissione e agli eventi che resero Oppenheimer una delle persone più famigerate del suo tempo. La prima parte del film, salvo le incursioni di Strauss, è costruita come l’origin story di una mente fuori dal comune: il giovane Robert studia fisica teorica e sperimentale in Europa, entra in contatto con menti illustri come Niels Bohr (Kenneth Branagh) e Werner Heisenberg (Matthias Schweighöfer), dal quale assimila la passione per la meccanica quantistica. Oppenheimer decide di portare questi studi pioneristici nelle accademie statunitensi, diventando in breve un punto di riferimento nel suo campo. In contemporanea si avvicina, tramite il fratello, al mondo dei sindacati e dei comunisti americani. Stringe perfino una relazione tossica con la psicologa Jean Tatlock (Florence Pugh), dotata di una mente fascinosa e ideologicamente legata al marxismo, e rimane stravolto dallo scoppio della Seconda guerra mondiale, anche per via delle sue radici ebraiche.
Ne accadono di tutti i colori a Oppenheimer, il quale sviluppa quella classica mistura di genio e sregolatezza. Già durante l’inizio degli studi viene rimarcata la sua capacità di astrazione, di vedere oltre la materia comunemente percepita per sondare gli spazi vuoti tra le molecole. Non è un asso in matematica, è goffo in laboratorio, eppure riesce a “sentire” le formule al pari di una sinfonia, qualità che viene messa in risalto dal suo mentore Bohr. A volte la chiave non è capire, è sentire, proprio come le leggi di inversione temporale di Tenet, nel quale vengono citati proprio Oppenheimer e la sua spaventosa invenzione. Non si lesina sull’instabilità mentale e la volubilità emotiva di Robert: rimproverato dal suo professore, decide di preparargli una mela avvelenata, pentendosene durante la notte e tentando di sbarazzarsene prima che il suo idolo Bohr, arrivato lì per una conferenza, la addenti. Questo episodio di giovinezza, a cui Oppy riesce a rimediare per un soffio, è il riassunto della sua parabola esistenziale, con la differenza che nel 1945 sarà troppo tardi per strappare la bomba atomica dalle mani di qualcun altro.
Emblematica la scelta della mela, il frutto proibito della Genesi, il boccone avvelenato di Biancaneve, ciò che secondo la leggenda si staccò da un albero e cadde in testa a Isaac Newton, ispirandolo a elaborare la teoria gravitazionale. Lo stesso Newton viene citato dal robot Tars in Interstellar, sostenendo che l’unico modo trovato dagli umani per andare avanti è lasciarsi qualcosa alle spalle. E pur di partecipare al Progetto Manhattan, Oppenheimer dovrà seppellire alcuni aspetti della sua vita: il passato di militanza di sinistra, poco simpatico agli occhi del Pentagono, e la tresca con Jean Tatlock, che viene sostituita da Katherine Puening (Emily Blunt), risposatasi più volte e afflitta da un piccolo problema di alcolismo. Gli scheletri spuntano puntualmente dall’armadio e il comunismo diventerà la principale accusa rivoltagli dalla commissione di Strauss, mentre le visite in incognito a Jean culmineranno nel tragico suicidio di quest’ultima. Il magnetismo di Florence Pugh è incredibile e la regia non manca di esplorare i particolari intimi del suo rapporto con Robert; è la prima volta che Nolan si cimenta con scene di sesso propriamente dette, e tutto ciò che mostra è asservito al racconto: inizialmente per gettare i semi di una relazione dai tratti sapiosessuali (la prima volta in cui sentiamo “Ora sono diventato Morte, il distruttore di mondi”, tradotto direttamente dal sanscrito, è mentre i due piccioncini zompano sul letto) e in seguito per sottolineare la delusione di Katherine, che nonostante i tradimenti rimarrà accanto a Robert fino alla fine.
Atomica bionda
Lo script di Nolan intende sezionare il suo protagonista e questo include la sua sessualità, l’indole da donnaiolo e i legami ai quali non sa rinunciare: durante il periodo a Los Alamos, in barba agli accordi di segretezza, invoca continuamente il fratello e apre parentesi extraconiugali, faticando al contempo a occuparsi dei figli. Né lui né Katherine sembrano tagliati per fare i genitori, sia lui che Jean sono menti curiose e insaziabili. Come si dice? Chi si somiglia si piglia. Oppenheimer è l’epicentro di un triangolo amoroso (che poi scopriremo essere un quadrilatero) proprio come diventerà il direttore del Progetto Manhattan, riunendo intorno a sé i migliori ricercatori sulla piazza, inclusi i vecchi amici e l’italiano Enrico Fermi (Danny Deferrari). Dalla teoria si passa alla pratica e, seguendo i consigli di Katherine, Robert diventa “pragmatico“. Il film cambia tono, e con esso la socialità del protagonista, scontentando chi si aspettava un rifacimento di A Beautiful Mind o de La teoria del tutto con Cillian Murphy. Mettendo da parte i laboratori di fisica, Oppy si trasforma in un venditore della scienza, capace di persuadere chiunque delle sue idee e autoconvincendosi di combattere per la causa giusta. Ormai è il volto del Progetto, il collante tra gli accademici e i vertici militari, rappresentati dal generale Groves (Matt Damon), con il quale Oppenheimer maturerà una lunga amicizia.
Parlavamo di lasciarsi indietro qualcosa e, in effetti, il protagonista non si limita a rinnegare un sindacato o un’amante, sacrifica un pizzico di umanità per battere i nazisti nella corsa all’atomo, abbracciando un ideale di deterrenza globale che solo in tarda età rimpiazzerà con l’utopia del disarmo. Perfino quando la possibilità di distruggere il mondo appare concreta, Robert insegue l’obiettivo guidato da una hybris prometeica. A pensarci bene, l’uomo ha rubato il fuoco agli dèi più volte e lo sviluppo della tecnologia atomica può essere considerato il caso più grave. L’operato di Oppenheimer assume l’aria di una predestinazione, una reazione a catena che sfocerà nell’attuale assetto geopolitico. La chain reaction si riflette dentro il protagonista, impegnato a non scontentare nessuno, travolto da un corso degli eventi senza vie di scampo. Le sue motivazioni più recondite sono nebulose, in linea con una scrittura che si limita a suggerire invece che esibire, a narrare invece che giudicare. Forse la bomba è il riflesso della sua vita autodistruttiva; forse è tutto ciò che gli rimane dopo le delusioni personali e idealistiche, e tra lui e l’ordigno corre un’attrazione fatale simile a quella di Jean. Dipendenze affettive, ambizione, nichilismo. Oppenheimer è tutto e niente, è una scintilla di pazzia che rischiara il vuoto interiore, e ognuno di questi risvolti è leggibile negli occhi di un Cillian Murphy magnifico.
Finalmente protagonista in un lavoro di Nolan, l’attore irlandese appare esile e compassato, completamente assorbito dal suo alter ego. Fatichiamo a immaginare un altro interprete che coniugasse la capacità di ammaliare il prossimo con una fragilità insita nel linguaggio, nella gestualità e nell’approccio interpersonale. Questo non fa di Oppenheimer una vittima, quanto un carnefice di se stesso, colto da un’ipocrisia che rischia di metterlo sullo stesso piano del venditore di scarpe Strauss. Gli attimi di lucidità sono quelli in compagnia di Albert Einstein (Tom Conti), stimato collega e pioniere della fisica: ciò che i due si dicono in riva a un laghetto è la chiave di volta del film, oltre che una summa delle gelosie di Lewis Strauss. Invidie e rimostranze serpeggiano anche nella specie di corte di Versailles scientifica che il protagonista mette in piedi a Los Alamos. Matematici litigano con ingegneri che bisticciano con chimici, sotto il peso della responsabilità e dei progressi del Terzo Reich. Nel cast ci sono grandi nomi, da Rami Malek a Casey Affleck, che appaiono per un battito di ciglia in stile guest star di Terrence Malick, e mentre il minutaggio prosegue fa capolino la sensazione che non si tratti solamente di una dimostrazione di potenza di fuoco produttiva ma della nostra sopravvivenza: i fatti e i nomi da tenere presenti, in questa lettura storiografica, sono così tanti che i volti noti aiutano a non perdere il filo.
Avviandoci verso i due terzi del film, alla formazione culturale di Oppenheimer e al sovraffollamento di Los Alamos segue il tanto agognato Trinity Test. Il prototipo della bomba è pronto, bisogna capire se il suo potenziale distruttivo è sufficiente a porre fine alla guerra. Hitler si è sparato in un bunker e la Germania è verso la resa, ma il Giappone è ancora determinato a combattere e la caccia all’armamento supremo non può arrestarsi. Ecco che il tempo, sfruttato finora per rimbalzarci tra il dopoguerra e gli anni ’40, torna a essere una dimensione tangibile, almeno quanto il materiale fissile issato su quella torre in mezzo al deserto. Bisogna farsi carico di tutti i rischi del caso, incluso quello di incendiare l’atmosfera e porre fine alla vita sulla Terra. Il countdown procede con il fiato sul collo e il pubblico rimane in attesa con gli scienziati, preparandosi a ad avere un attacco di Sindrome di Stendahl. Sta per compiersi un miracolo cattivo, una prova di forza dove la necessità e la follia collettiva divengono indistinguibili. Come direbbe Ian Malcolm, i ricercatori sono così preoccupati di poterlo fare che non hanno pensato se lo dovevano fare. È il momento, mettetevi la crema solare e spingete il pulsante rosso.
La sequenza del test è un avvolgimento sensoriale, un cazzotto in faccia audiovisivo di rara potenza, supportato da quegli effetti pratici a cui il regista non rinuncerebbe mai. Non è raro assistere a un’esplosione nucleare nel cinema mainstream e per alcuni un fungo atomico equivale a un altro, ma ad attribuire significato alle immagini ci pensano il montaggio, i silenzi, la consapevolezza di aver realizzato qualcosa che impatterà sul vivere quotidiano di tutti. Non è una dimostrazione, è un avvenimento mistico. Questa cosa è venuta alla luce e non si può cancellare. Sviluppato il congegno, il pallino passa al governo, che deciderà di fare un giretto a Hiroshima e Nagasaki, avvalendosi della consulenza di Robert per individuare un obbiettivo con una bassa percentuale di vittime civili. I morti saranno innumerevoli, sia per la detonazione al suolo che per le radiazioni, e non esiste una soglia della moralità che possa distinguere serenamente tra 100 morti e 100.000, dettaglio che il protagonista comprenderà in seguito. Dopo il Trinity si chiude il cerchio e la pellicola giunge a una fase che non risulta impattante quanto i primi due atti. Nolan sa cosa vuole raccontare e non scende a compromessi con le aspettative o la soglia dell’attenzione di chicchessia, perciò il senso di disorientamento provato in sala è riconducibile alla fatidica domanda: “Che cosa cerchi in un film?”.
Non c’è l’Oppenheimer eroe romantico e sognatore, aspetto paventato dagli spiragli dell’incipit; non c’è nemmeno il thriller scientifico duro e puro, incentrato sulla realizzazione della bomba, sugli ostacoli tecnici da superare e sulla pericolosità dei materiali utilizzati nell’impresa. Sono tutte ramificazioni della storia che si esauriscono con il grande boom nel deserto, consentendo a Nolan di ripescare le aule da pseudo-tribunale disseminate lungo la strada e unire i fili, costruendo un’atmosfera che non è così distante da Codice d’onore o La figlia del generale. Ci si fa un’idea di quanto sia ingombrante la figura di Robert Downey Jr., al punto da ribattezzare l’intera operazione Oppy & Strauss. Il punto di vista distaccato sul protagonista è funzionale all’enigma della conversazione con Einstein (che appare a piacimento nel giardino altrui tipo un fantasma della Forza) e plasma il resto del contenuto come una pellicola sull’immagine di Oppenheimer piuttosto che sull’animo del personaggio. Cercavate questo? Se speravate in un lungometraggio differente, le tre ore diventano un sequestro di persona e non c’è guest star che tenga.
Può darsi che non fossimo dell’umore adatto per un film così ambiguo, non riguardo al doppiopesismo di Robert & amici ma a un’alternanza di volti, audizioni e fact checking che rischia di raffreddare la parte legata all’epica dei sentimenti. Per ogni allucinazione di Oppy c’è uno scambio di battute che riafferma il concetto di caccia alle streghe sovietiche, di sicurezza interna, di quanto il sistema politico possa rivoltarsi perfino contro i suoi giocatori d’azzardo più esperti. Nei primi due atti Fissione e Fusione camminano a braccetto, in seguito finiscono per esaurire l’arsenale retorico, ostacolandosi a vicenda. È come prendere un intreccio da docu-film sugli altarini degli USA e girarlo nel miglior modo concepibile, però senza la voce narrante, e quindi si smaltisce la gran quantità di nozioni con la verbosità dei personaggi. Se non bisogna ricorrere a un taccuino per segnarci chi, cosa e quando, perlomeno è necessaria una buona comprensione della mentalità americana e di quale effetto possa avere una notizia a carattere bellico o una dichiarazione scottante sul tessuto sociale.
Dalla seconda visione si può tirare il fiato e concentrarsi sulla psicologia e sul lavoro attoriale, che rimane di gran classe e beneficia del frequente ricorso a primi e primissimi piani. Peccato che tanti di essi abbiano problemi di messa a fuoco: basta che l’interprete si sposti di pochi centimetri in avanti o indietro affinché il focus si sposti sull’orecchio o sulla spalla; una profondità di campo ridotta, non facile da gestire, in linea con l’approccio analogico di Nolan (girare in pellicola a 70mm), il quale preferisce complicarsi l’esistenza da artigiano invece di ricorrere a un’estetica commerciale. Una doverosa menzione va fatta alla colonna sonora di Ludwig Göransson, onnipresente punto di contatto col pubblico (la soundtrack occupa due ore e mezza della durata complessiva), capace di dare continuità a un montaggio che si sposta repentinamente da persona a persona, da un decennio all’altro. Allineandosi allo spirito ambivalente dell’opera, Göransson mescola archi e strumentazione elettronica, portando a casa un risultato più completo di Tenet, in grado di emozionare anche durante l’ascolto separato. Le note si moltiplicano come i neutroni, che danno luogo a una fissione nei nuclei adiacenti, che a loro volta producono altri neutroni, restituendoci la sensazione di una forza inarrestabile.
Un gran botto, in sintesi, e non parliamo solo della miscela di benzina e propano che ha simulato la bomba. È un ordigno complesso, stratificato. Non ha l’istantaneità di un’esplosione, si dipana lentamente e arricchisce di dettagli i fatti appena accennati nel primo atto, confutando ora il protagonista, ora i suoi avversari. Offre una cronaca sontuosa ma non sempre emoziona. Proprio per questo ci lascia interdetti la pioggia di lodi senza riserve, i 10/10 e i resoconti di chi si è detto frastornato dalla visione. “Capolavoro assoluto, l’opera più importante del XXI secolo”. Il film corrispondeva davvero a ciò che tutti, fino all’ultimo blogger, stavano cercando o si tratta di un successo di stima, della paura di tirarsi fuori dal coro? Se qualche passaggio venisse giudicato un po’ ostico, evitando di ridurre l’analisi a “Che bella la bomba senza CGI”, arriverebbero puntuali le accuse di ignoranza cinematografica?
Forse quello che il film merita non è una genuflessione per l’esecuzione tecnica, è il tempo. Il tempo di sedimentare, di metabolizzare il suo impatto sulla memoria collettiva e sull’industria hollywoodiana, e invece non c’è stata consacrazione più fulminea per un lungometraggio che dura 180 minuti e che vi lascerà per giorni a chiedervi cosa abbiate visto. Si parlerà per anni, nel bene e nel male, di un film che fa leva sui nodi insoluti del passato per prospettarci un futuro spaventosamente attendibile. Osservando l’emaciato Cillian Murphy, scopriamo che il suo dolore non deriva dalla gogna mediatica, di fronte alla quale non reagisce, come gli fa notare la moglie indignata. Eh sì, l’America trova un sotterfugio per stigmatizzare Oppenheimer perché non ha il coraggio di condannare se stessa, troncando poi la questione con una medaglia e una pacca sulle spalle. Tutto finito, quindi? No, il finale è più aperto che mai e lo stiamo vivendo giorno dopo giorno: il rimorso di Robert riguarda le ulteriori vittime che potrebbero sperimentare la sua invenzione. E questa volta si parla di miliardi. Un profeta come lui non sbaglia ma, data la situazione, ci auguriamo che abbia preso una cantonata.
Personalmente sono delusa. Speravo in un thriller scientifico come di fatto sono stati gli avvenimenti storici: numerose difficoltà tecnico scientifiche che sono state risolte da un gruppo di diverse personalità, geniali fisici nucleari che presero parte a un progetto militare e collaborarono per un obbiettivo comune, in una guerra contro il tempo, in una splendida location. Alla fine ebbero successo con l’impressionante esplosione del Trinity Test (nel film deludente). Non mi interessava per niente del processo per sapere se Oppenheimer era comunista e delle dinamiche con Strauss, di importanza irrilevante per per la maggior parte degli spettatori.
L’argomento potenzialmente sarebbe stato molto interessante ma è stato trasformato in qualcosa di non interessante.