di Nanni Cobretti
Ok, sono sbarcati gli alieni sulla Terra, che si fa?
Seriamente, sono sbarcati in un sacco di punti diversi del pianeta, forse a caso, forse no: che si fa?
Tanto per cominciare: tocca trovare un accordo tra i diversi governi che si ritrovano ad ospitare le astronavi, non dico per centralizzare la strategia ma almeno per coordinarsi un minimo, e ognuno si sa, ha una testa, una situazione ed esigenze diverse.
Ci siete?
Concentratevi, non fatevi prendere dalla fretta.
Come seconda cosa vanno prese un sacco di precauzioni, che quello che per noi è un raffreddore per loro potrebbe essere l’ebola ma soprattutto viceversa.
Dopo di questo, più o meno siamo pronti per arrivare al dunque.
Cosa vogliamo sapere?
Pensateci bene. Saltate pure i convenevoli e puntate al nocciolo della questione.
Direi che abbiamo tutti pensato la stessa cosa, e che la nostra richiesta agli alieni, per semplicità e pragmatismo, si può sintetizzare in due parole: “cazzo volete?”
Ora bisogna farglielo capire.
Partiamo al contrario: innanzitutto devono capire il concetto di punto interrogativo, il fatto che il messaggio che emettiamo nella loro direzione è una domanda che attende una risposta, coerente e conseguente, da parte loro.
“Volete” indica un desiderio, un obiettivo, uno scopo, e indica “voi” nel senso plurale degli alieni, intesi come razza generalizzata ma diciamo per comodità limitata a coloro coinvolti nella decisione e nell’attuazione del piano di farsi una gita dalle nostre parti.
“Cazzo”: tecnicamente è una parte del corpo umano, ma in questo contesto ha un secondo significato, indica l’oggetto della nostra richiesta, indica il fatto che noi non sappiamo cos’è, e indica anche che siamo abbastanza – comprensibilmente – nervosi e vorremmo mettere una certa pressione affinché ci venga data una risposta soddisfacente senza perdere troppo tempo.
Mica semplice, eh, se dall’altra parte hai delle entità che non sai manco di chissà quale combinazione di composizione chimico/concettuale sono fatti.
Magari sono ciechi e sordi, magari leggono nel pensiero, magari parlano l’inglese ma sono permalosi e se non dici “per favore” dodici volte, come da manuale del galateo marziano, si offendono (ma occhio, non più di quattordici volte altrimenti lo interpretano come sarcasmo e si offendono uguale).
Almeno sappiamo che non sono scemi come un carlino: hanno costruito astronavi capaci di arrivare fin da noi, dovrebbero essere abbastanza ricettivi, nei limiti delle differenze fisico/culturali.
Insomma, direi che avete afferrato l’aria che tira.
Il primo tempo di Arrival è quasi tutto esattamente così, ed è bellissimo.
È puro nerd porn.
È un procedurale sull’arrivo degli alieni e sulle nozioni di scienza e linguistica che servono per trovare un comune codice di traduzione fra specie diverse, fra rappresentanti di popoli che potrebbero non avere letteralmente nulla in comune, nemmeno la stessa percezione dell’ambiente che ci circonda o del senso delle cose.
Ed è tutto reso con il ritmo magnetico dei migliori gialli deduttivi.
È un aspetto che il cinema non aveva ancora affrontato con tale rigore.
Ma è anche contemporaneamente la gabbia del film, perché la quantità di riflessioni e dettagli e l’entusiasmo contagioso dei piccoli progressi è tale che un film non basta, non basta neanche una serie tv, ci vorrebbe tipo uno streaming in diretta da guardare giorno per giorno per godersi lo spettacolo della decodificazione e della lenta, graduale scoperta di un enorme mondo completamente nuovo.
Però Arrival ha scelto di essere un film del cinema, per cui deve chiudere tutto in un paio d’ore.
E allora a un certo punto gli tocca tagliare breve, chiudere il primo atto (la scoperta), trovarne un secondo (la difficoltà, il pericolo) e un terzo (la soluzione).
E allora succedono due cose: da una parte si aprono ovvie voragini di sceneggiatura che saltano inevitabilmente all’occhio in confronto alla precisione chirurgica della prima ora; dall’altra, in compenso, Villeneuve aveva un asso nella manica che, approfittando di caratteristiche tipiche del linguaggio cinematografico (sempre linguistica…), aveva abilmente nascosto sotto al vostro naso per tutto il primo tempo pronto a tirarlo fuori al momento giusto per svelare che il cuore del film in realtà stava altrove, e non era nel freddo nerd porn ma stava nei personaggi protagonisti, ed era caldissimo. Un mix che già qualcun altro aveva tentato (e mi riferisco abbastanza precisamente a Nolan con Interstellar) ma senza trovare l’amalgama giusto che rendesse con la giusta potenza entrambi gli aspetti.
Non ci sono inseguimenti ed esplosioni in Arrival, non è quel tipo di film.
È in compenso il tipo di film che ti presenta un mostro nuovo tutto da conoscere e analizzare, anche se siamo più sul campo del “come ragiona?” che del “quali sono le sue mosse di lotta preferite?”.
In ogni caso, non saprei come definire meglio “cinema di fantascienza”.
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