James Bond alza il gomito e finisce nel deserto con gli scarti di Independence Day.
di Alessandro Sivieri
Jon Favreau non è un gringo qualunque. Parliamo del tizio che, insieme al miliardario playboy filantropo di Robert Downey Jr., ha dato inizio all’Universo Cinematografico Marvel girando i primi due Iron-Man. Sempre suo è il remake in live action de Il libro della giungla, con effetti digitali sorprendenti e un cast vocale d’eccezione. Se il curriculum vi sembra incompleto, c’è sempre quel gioiellino di The Mandalorian. Scazzottate e sinistri invasori alieni hanno fatto capolino nella sua carriera anche nel 2011, quando si è lanciato in un western atipico con la produzione di Steven Spielberg.
Probabilmente ai due pezzi grossi di Hollywood è partita la nostalgia de La guerra dei mondi, quindi hanno avuto un’idea folgorante: adattare per il grande schermo la graphic novel di Scott Mitchell Rosenberg, che parla di incontri ravvicinati tra gli extraterrestri agguerriti e i pionieri del vecchio West. Un accostamento quantomeno improbabile, ma proprio per questo privo di rischi concorrenziali. Il team di sceneggiatori, forte di nomi come Alex Kurtzman, Roberto Orci (i due del reboot di Star Trek) e Damon Lindelof, ha cercato di tirarne fuori qualcosa di plausibile. Risultato? Il mio nome è Eastwood, Clint Eastwood.
Nel cuore dell’Arizona tre cacciatori di taglie incontrano Jake Lonergan (Daniel Craig), risvegliatosi nel bel mezzo del deserto con un’amnesia. Mister Bond porta al polso un misterioso bracciale, tecnologicamente troppo avanzato per essere di fattura umana. Anche se smemorato, Jake sa alternare cazzotti in faccia a frasi da macho con naturalezza, e si fa strada verso la cittadina di Absolution. Il prototipo incarnato da Craig si ispira agli albori del genere western: dal John Wayne di Ombre Rosse in poi, ci siamo ritrovati con degli outsider senza passato, dei fuorilegge che provengono dalle terre di frontiera per regolare qualche conto in sospeso, prima di tornarsene tra i canyon e i serpenti a sonagli.
Allo smoking perfettamente stirato si sostituiscono camicia unta e cappello logoro, ma cambia qualcosa nella sostanza? Mica tanto. L’espressività, l’impianto dialogico e persino lo stile di combattimento del protagonista non differiscono da un qualunque episodio recente di 007, dandoci l’impressione che Bond si sia perso tra le sterpaglie dopo una sbronza colossale con dei mandriani. I comprimari usa e getta cercano di aggiungere un po’ di pepe: Olivia Wilde è una damigella enigmatica con cinturone e vestitino, Sam Rockwell è il tipico barista passivo-aggressivo e Paul Dano è il viziatissimo rampollo del latifondista locale, un Harrison Ford senza scrupoli, strafatto di farmaci per la prostata.
I cattivi e i meno cattivi sono costretti a stringere una temporanea alleanza quando una flotta di navicelle aliene attacca la città, seminando distruzione e rapendo persone con il lazo, tra cui il figlio del colonnello Dolarhyde (Ford). A questo punto il veterano, scambiate due sberle di benvenuto, forma un sodalizio con il protagonista per fronteggiare la minaccia. Lonergan ricorda, pezzo dopo pezzo, i propri trascorsi di fuorilegge e scopre che il suo bracciale è una potente arma al plasma, piuttosto utile dato che i proiettili convenzionali non hanno effetto sul nemico. Il design degli extraterrestri è anonimo quanto il loro scopo: sono venuti sulla Terra per raccogliere oro e vivisezionare qualche umano, tra cui la sfortunata moglie di Lonergan, il quale giura vendetta contro i predoni marziani.
Al netto delle premesse bislacche e della scrittura incerta, la produzione targata Spielberg assicura alcune sequenze piene di trovate registiche: il primo attacco al villaggio ne è l’esempio più evidente, con una fotografia che cita sia Incontri ravvicinati del terzo tipo che il più recente War of the Worlds con Tom Cruise, entrambe opere del regista di Cincinnati. Carrellate in avvicinamento sui volti stupefatti, luci nelle tenebre, persone arpionate a mezz’aria: per qualche attimo il gioco sembra funzionare e ci si diverte parecchio. La seconda parte, con un pellegrinaggio in cerca dei sopravvissuti, ha un background post-apocalittico alla Independence Day, mentre un faccia a faccia tra un ragazzino e un alieno bavoso ci ricorda sia il Tirannosauro de Il mondo perduto (ancora il vecchio Spielberg) che lo Xenomorfo di Alien. Ci piace? Sì, le citazioni nei punti giusti sono un ingrediente saporito, ma te le puoi permettere solo se il resto sta in piedi da solo.
Gli elementi in grado di incuriosirci, come il gap tecnologico tra le due fazioni, vengono messi in ombra da personaggi troppo prevedibili per farci appassionare: il barista Doc diventa un duro per salvare la moglie, Dolarhyde si riscopre padre e Walton Goggins capita sulla scena per fare la spalla comica. Sul podio delle idee anticlimatiche c’è l’allenza con gli indiani (gli Ewok di turno), Olivia Wilde che risorge dalle ceneri e Craig contrito che porta dei fiori a una casa distrutta. A stemperare i toni seriosi ci sono momenti ilari, piazzati sulle spalle dei caratteristi e in particolare di Paul Dano, ma ogni cinque minuti ci si riduce ad attendere la prossima sparatoria. A riprova del fatto che non basta un team blasonato a garantire il successo, Cowboys & Aliens riesce nell’intento di non essere né un western né uno sci-fi.