Il fascino criminale di Zac Efron.
di Alessandro Sivieri
I mostri con fattezze umane come assassini e rapinatori emanano talvolta un sinistro carisma che irretisce le masse. Approfittando di questa formula, la sovraesposizione mediatica dei mezzi di informazione e la produzione d’intrattenimento (film e serie tv) mitizzano la figura del fuorilegge, che viene messo su un piedistallo come una bestia rara. Da Bonnie e Clyde ad Al Capone, il criminale può diventare un feticcio televisivo per chi ne condanna le gesta ma al contempo se ne nutre morbosamente. Quando parliamo di killer, a fare presa sullo spettatore sono la ricostruzione degli omicidi e la fase processuale, dove chiunque può improvvisarsi investigatore senza scollarsi dal divano di casa e formulare strampalate teorie che vanno a ipotizzare l’innocenza o la colpevolezza. A presentarci l’ennesima iterazione cinematografica di una storia vera è Ted Bundy, in originale Extremely Wicked, Shockingly Evil and Vile, opera che non supera del tutto gli stilemi documentaristici dell’autore Joe Berlinger.
Contando su una somiglianza fisica notevole, Zac Efron aggiunge un altro epitaffio ai tempi bambocciosi di High School Musical e ci offre una solida interpretazione di Ted, studente di giurisprudenza che negli anni ’70 si rese responsabile dello stupro e dell’uccisione di più di trenta donne. Dietro la facciata di un ragazzo brillante, educato e di bell’aspetto si nascondeva un torturatore, un necrofilo e soprattutto un manipolatore. Mettendo al bando le rappresentazioni grafiche della violenza, il film si concentra sul lungo processo che vide coinvolto il giovane in diversi Stati americani. Grazie a una spettacolarizzazione televisiva senza precedenti e alla sua telegenica sbruffoneria, Ted divenne una vera star, con tanto di ammiratrici attratte dal suo perverso sex-appeal.
Il personaggio di Efron è capacissimo di celare la propria indole psicotica. Riusciamo a coglierla tramite qualche indizio e grazie al suo sguardo gelido, ma fino alla fine siamo portati a mettere in dubbio, almeno parzialmente, le sue responsabilità nella lunga serie di femminicidi. L’immagine ricorrente che abbiamo di lui è quella idealizzata dell’uomo tutto d’un pezzo, una distorsione derivante dal punto di vista della moglie Liz Kendall (Lily Collins). Quest’ultima si ostina a non vedere il marcio sotto la patina del bravo cittadino americano. Divorata dai dubbi e dal senso di colpa, la giovane madre single diventa solo l’ennesima pedina usata da Ted per costruirsi una facciata socialmente inattaccabile.
Sia i giornali che il sistema giudiziario statunitense andarono in cortocircuito sul caso Bundy: non si trattava di un immigrato o di un individuo ai margini della società. A essere accusato di quelle efferatezze era uno studente di giurisprudenza, di bell’aspetto e dai modi affabili. Questo spiega, almeno in parte, i privilegi goduti da Bundy rispetto ai comuni carcerati, nonché la sua posizione di primo piano nel rispondere alle accuse. In pieno spirito da dramma processuale, Ted si difende da solo, si fa beffe del procuratore Sheldon Cooper, scambia battute con John Malkovich e imbocca i giurati con la sua parlantina e il suo vestiario impeccabile. Il mostro, insomma, si pone come vittima facendo leva sulle ipocrisie dell’America puritana.
Una scelta peculiare, quella di bypassare l’esibizione splatter dei crimini per concentrarsi sul fenomeno mediatico, che ripaga solo a metà. Non mancano i tocchi di ironia, ben dosati rispetto alle declinazioni surreali di Natural Born Killers (le due pellicole condividono parecchie tematiche), e i media vengono messi alla berlina per il loro opportunismo. Ted sorride e fa l’occhiolino alle telecamere, comunicandoci che a prescindere dalla sua colpevolezza, è una figura di culto. Branchi di ragazzine lo idolatrano e manifestano in sua difesa, consapevoli almeno in parte di essere usate ma inesorabilmente attratte dal pericolo.
Nonostante le premesse, il regista Berlinger si perde in una verve da cronaca giudiziaria e la parte centrale risulta eccessivamente appesantita. Lo spaccato sociologico fa un passo di troppo, sostituendosi all’approfondimento psicologico (il dolore stantio di Liz, i retroscena emotivi di Ted) che un’opera di finzione dovrebbe possedere. Perfino i salti temporali e i tentativi di evasione si perdono in un oceano di arringhe e battibecchi con gli avvocati, che ci portano stancamente al finale liberatorio. Resta l’encomiabile tentativo di svecchiare la formula del legal thriller, rimarcando una lezione importante: il lupo può travestirsi da agnello perché sono le masse di pecore a permetterlo.