MO.CAP: Sei un Mostro perché sento ciò che provi

Analisi del Motion Capture come dispositivo empatico e potenziatore recitativo.

di Matteo Berta

Il testo che il gentile lettore mostruoso troverà di seguito è un elaborato universitario che ho scritto durante il mio primo anno di frequenza della magistrale in comunicazione e gestione di contenuti digitali.

Ringrazio la mia professoressa di Storia del Teatro e Storia della Comunicazione Orale e Drammaturgica per aver tenuto molto più di semplici lezioni.


Catturare il Movimento

Il cinema è nato come dispositivo d’intrattenimento circense senza un apparente futuro artistico (dalle stesse parole dei fratelli “fondatori” Lumière) e il principio tecnologico dell’immagine in movimento è scaturito dal desiderio di decomporre il movimento stesso per studiarlo, quindi dalla logica inversa; basti pensare alla vicenda del fisiologo Marey e il fotografo Muybridge che vollero capire se nell’andatura dei cavalli ci fosse uno step dove l’animale rimanesse con tutte e quattro le zampe sollevate da terra. Il Motion Capture basa le proprie fondamenta sui principi arcaici della decomposizione e analisi del movimento, in particolare con il rotoscope di Max Fleischer, brevettato nel 1915, dove si ebbe il primo dispositivo in cui “i partecipanti reali fornivano il modello di movimento umano per ridurlo ad un altro medium”.

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Il MO.CAP nasce come registrazione del corpo umano per un’analisi immediata o differita grazie alla riproduzione. Le sue applicazioni sono molteplici: dall’ambito sportivo-medico per valutare se i movimenti corporei rispettano le caratteristiche corrette, fino al nostro interesse legato alla rappresentazione artistica dove non si simula, ma si ricrea il movimento per scopi artistici.

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Il primo esempio da far ricondurre all’applicazione del MO.CAP nell’industria dell’intrattenimento videoludico è Prince of Persia (genere piattaforma, divenuto prodotto cult per i videogiocatori), ma nell’ambito cinematografico era già entrato in punta di piedi grazie alla Walt Disney, che ne capì le potenzialità, e tramite strumenti rotoscopici (disegnare ricalcando pellicole filmate in precedenza) realizzò i movimenti umani e animali dei suoi film d’animazione (esempio notevole fu Biancaneve e i Sette Nani del 1937).

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Dal cartoon si passò all’applicazione nei prodotti audiovisivi in Computer Grafica per poi esplodere ed evolversi negli anni duemila dove il MO.CAP invase anche e soprattutto i film in live action.

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Uno degli ostacoli principali che incontrò questa “strategia tecnologica” fu paradossalmente l’essere umano. Il famoso regista Robert Zemeckis, molto attratto da questa tecnologia, decise di produrre una serie di lungometraggi animati con protagonisti umani, ma i suoi lavori non riscossero successo e provocarono fastidi nello spettatore.

La problematica riscontrata è spiegabile tramite l’ipotesi mossa dallo studioso di robotica Mashiro Mori, che nel 1970 pubblicò sulla rivista Energy la sua teoria riguardante i problemi riconoscitivi da parte di individui nei confronti di eccessive simulazioni dell’essere umano.

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L’Uncanny Valley è una teoria che tenta di esplicare come la mente umana provi repulsione nel percepire un tentativo di simulazione umana, mentre è piacevolmente (empaticamente) colpita dall’introduzione di caratteristiche umane in qualcosa che chiaramente umano non è.

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Mori riconduce la repulsione dell’essere umano a una situazione che definisce “Zona Perturbante”, ovvero una brusca flessione empatica di un individuo che non accetta psicologicamente che si stia cercando di replicare un suo simile. La flessione non avviene quando si attribuiscono caratteristiche umane a oggetti o creature non umane, perché la mente non si “preoccupa” di un tentativo di simulazione umana ma riconosce semplicemente somiglianza in qualcosa che di partenza ha già chiarificato e definito come non essere umano.

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Quando ipotizziamo che il MO.CAP aiuti il processo empatico tra personaggio cinematografico e spettatore, si intende il riferimento a una concezione puramente scientifica della relazione, infatti ci si basa su quella che fu definita come “la più importante scoperta scientifica nell’ambito delle neuroscienze”, ovvero i neuroni specchio.

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La particolare tipologia di neuroni fu identificata dall’equipe di Giacomo Rizzolatti nel 1992, analizzando le scimmie, più specificatamente la corteccia premotoria di un esemplare di Maccaca nemestrina, dove si notò che si “accesero” alcune aree nella sezione del movimento senza esserci effettivo desiderio o propensione all’azione, ma solamente grazie ad uno stimolo visivo. Il medesimo processo fu riscontrato anche nell’essere umano: “…non ci limitiamo a vedere con la parte visiva del nostro cervello ma utilizziamo anche il nostro sistema motorio” perché si attivano nella sezione fronto-parietale, reazioni ad azioni simili a quelle che stiamo osservando.

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I neuroni specchio agiscono nello stesso modo sia quando siamo noi a compiere un’azione sia quando osserviamo un’altra persona. Se noi esseri umani sappiamo riconoscere gesti di altre persone, possiamo identificare emozioni solo guardando il viso di qualcuno, come esplica lo stesso Rizzolatti nel suo testo “So quel che fai”, spiegando che l’essere umano, già in tenera età apprende meccanismi di riconoscimento empatico-cognitivo straordinari: “…sappiamo che già dopo due o tre giorni dalla nascita, i neonati distinguono un volto triste o contento e intorno al secondo mese i bambini sviluppano una consonanza affettiva con la madre al punto da riprodurre in modo quasi sincronizzato espressioni facciali o vocalizzazioni che ne riflettono lo stato emotivo”.

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Il MO.CAP intende favorire la percezione umana all’interno di un personaggio non umano, in modo da far scattare il meccanismo empatico anche se non siamo di fronte a dei nostri simili.

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Il cinema di mostri che utilizza la tecnologia del MO.CAP gioca sull’avvicinamento empatico benevolo quando vuole trasmettere sentimenti di compassione nei confronti della bestia sofferente (King Kong), mentre quando vuole generare inquietudine utilizza il collegamento empatico in modo che lo spettatore si identifichi inconsciamente in un’espressione di matrice umana, ma che non accetti di “assomigliare” o avere qualcosa in comune con una creatura costruita, a livello di sceneggiatura, in modo così spregevole.

La Bella diventa Bestia


Andy Serkis. Il mostro diviene uomo

Nel momento in cui ci si approccia alla tecnologia della Motion Capture (o Performance Capture) è immediata l’associazione con colui che ha saputo rendere se stesso un emblema della stessa tecnica.

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Andrew Clement Serkis è un attore britannico (divenuto anche regista) considerato icona e punto di riferimento per l’utilizzo del MO.CAP: oltre ad aver interpretato i personaggi cinematografici più importanti realizzati grazie a questa tecnologia, Serkis si è inventato anche la professione del “Consulente MO.CAP” che ha esercitato anche in produzioni dove la sua performance attoriale non era richiesta.

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Nonostante il suo lavoro sia riconosciuto globalmente come vera a propria attività artistica, l’immaginario dell’industria di produzione e di riconoscimento cinematografico, fatica ancora a riconoscere appieno le sue interpretazioni “digitali” come qualcosa di performativo diretto. Ne fa esempio il fatto che non esista una categoria di nomination degli Academy Awards che accolga candidati derivanti da questa particolare tipologia di interpretazione e siamo ancora lontani dalla possibilità che la recitazione in MO.CAP possa essere integrata nelle varie categorie principali alla “Miglior Attore”.

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Andy Serkis, negli ultimi anni, sta combattendo battaglie personali (e di categoria) nei confronti di questa logica limitante di concepire l’attore cinematografico solamente se presente interamente e “fisicamente” nelle sequenze, infatti come spiega a Deadline in un’intervista rilasciata il 21 novembre 2017, secondo lui non esiste differenza tra “recitazione tradizionale” e performance in MO.CAP:

“Non c’è differenza dal punto di vista della recitazione […] si vive il personaggio giorno per giorno come la recitazione live action […] si fanno le stesse scelte recitative che si farebbero anche nella maniera convenzionale […] In passato si credeva che la MO.CAP fosse una sorta di sport sotto effetto di droghe, ma non è così. La performance è la performance.”

Il nocciolo della questione è da collocare nel mezzo tecnologico. Secondo Serkis gli strumenti fisici che permettono l’avverarsi di tale processo performativo (sensori e tute “motoriamente digitalizzanti”) non simulano né scimmiottano la recitazione, ma sono dei mezzi puri di presentazione del “Qui e Ora” attoriale. Questo concetto lo giustifica in un’altra intervista rilasciata a Wierd il 17 Luglio 2017 dove Serkis risponde a delle domande relative al suo ruolo nel terzo capitolo della saga reboot de “Il Pianeta delle Scimmie” nel quale si trova a incarnare la scimmia protagonista di nome Cesare:

“Da sei anni interpreto il leader delle scimmie, mai come oggi la tecnologia regala meraviglie e rende un attore – invisibile – o digitale e fondamentalmente umano.”

Il fatto che il Serkis sul set non appaia nello stesso modo che nelle scene dei suoi film post-prodotti non implica una castrazione attoriale, siccome l’attore è presente sul set fisicamente nello stesso modo degli attori “tradizionali” e compie gli stessi tipi di lavori preparatori per la costruzione del personaggio.

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Serkis ha interpretato in due contesti cinematografici diversi il ruolo di primate, prima per incarnare “l’ottava meraviglia del mondo” in King Kong di Peter Jackson nel 2005 e poi per la sopracitata saga de “Il pianeta delle scimmie”. L’attore ha dovuto lavorare su se stesso analogamente a un attore “convenzionale”, infatti può applicare, per esempio, il metodo Stanislavskij.

Riprendendo un secondo estratto dell’ultima intervista citata in precedenza, Serkis ci spiega telegraficamente come ha impostato il suo lavoro di ricerca:

“Per rendere i personaggi verosimili ho compilato un codice a metà tra comunicazione gutturale e segni. Le camere puntate in faccia oggi hanno una risoluzione al dettaglio, le tute sono fatte apposta per una performance capture live e non post- prodotta.”

Con questa affermazione capiamo come lo stesso Serkis si senta estremamente e direttamente responsabile di ciò che performa e alla domanda secca del giornalista “Che cosa conta di più per lei in questo tipo di lavoro?” Andy risponde lapidariamente:

“L’empatia […] io sono sempre e comunque un essere umano”

La sua filosofia applicata al suo lavoro ci spiega eloquentemente il perché del nostro emozionarci visceralmente nei primi piani del King Kong sofferente che muore appeso all’Empire State Building o il nostro sentirci internamente in contrasto nel notare con simpatia prima e antipatia poi la doppia personalità del suo Gollum nella saga de “Il Signore degli Anelli”.

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Pamela Robertson Wojcik, professoressa del dipartimento di cinema, televisione e teatro dell’università di Notre Dame, critica il sistema degli Academy Awards per le stesse ragioni espresse da Serkis, citando il caso “The Elephant man”, dove nel film di Lynch troviamo John Hurt che interpreta John Merrick: un personaggio soggetto a numerose malformazioni dovute alla Sindrome di Proteo e che ha portato l’attore a “munirsi” di numerose protesi rendendolo irriconoscibile, ma ciò non gli ha impedito di essere premiato agli Oscar. “Mentre i trucchi teatrali come il make-up e le protesi sono visti come integrazioni alla buona recitazione, gli effetti speciali cinematografici digitali sono visti come intralci”.

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I mancati riconoscimenti nei confronti degli attori MO.CAP ci fanno capire quanto questa tecnologia non sia ancora entrata nelle logiche di interpretazione attoriale, ma l’immaginario dell’intrattenimento cinematografico mantiene la visione di riconoscimento recitativo solamente se un attore si avvale di supporti piuttosto che lo stesso sia un ausilio per la tecnologia.

Il Motion Capture, se riuscirà a conquistarsi una nobilitazione e un riconoscimento effettivo nelle arti performative, potrà candidarsi come una delle tecniche migliori per far divenire il mostro umano, e allora non c’è più la Bella e non c’è più la Bestia.


Ritorno alla recitazione primordiale

Rupert Wyatt nel 2011 dirige “Rise of the Planet of the Apes”; la trama è incentrata su degli esperimenti farmacologici testati su tre scimpanzé catturati in Congo e studiati in un centro di sperimentazione genetica a S. Francisco. La situazione degenera velocemente e si decide di passare alla soppressione degli esemplari, ma lo scienziato Will Rodman decide di salvare il cucciolo di uno degli scimpanzé nascondendolo nella propria abitazione. Cesare (Andy Serkis), crescendo, sviluppa delle abilità cognitive straordinarie che lo portano ad acquisire velocemente il linguaggio dei segni umano fino ad arrivare, nel finale del film, a pronunciare un emblematico “NO!” verbale.

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Serkis per tutto il film si trova alle prese con una recitazione altamente gestuale (prima studia i movimenti delle scimmie, poi il codice dei segni) e quindi è costretto a gestire in modo equilibrato la sua componente animale e la sua emotività umana. Il percorso di crescita della scimmia Cesare è analogo al cammino che ha portato gli uomini a passare dall’oralità alla scrittura.

La nostra forma mentis è altamente condizionata dalla nostra cultura esperienziale basata sulla scrittura, dove le parole sono passate dall’essere concepite come “suoni” all‘immagine mentale delle lettere accostate una di fianco all’altra, mentre per le popolazioni contraddistinte da una cultura orale le associazioni significanti sono strettamente collegate al fono che possiede un valore autonomo.

Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola Copertina flessibile

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L’oralità è tutto ciò che viene prima di un discorso scritto, essa fa parte del mondo del suono, dove il significato viene acquisito nel momento del suo deperimento, ma quando si cerca di fissarlo (scrittura) la carica significante perde valore perché diventa “parola morta” che nel corso della storia non ha cambiato solamente la comunicazione tra gli uomini, ma ha ricostituito le nostre strutture di costruzione del pensiero.

Nel finale del film, Cesare ha raggiunto uno sviluppo celebrale talmente elevato che riesce a impadronirsi della codificazione del linguaggio umano e in una scena di rivolta delle scimmie contro gli umani, si impone con un suggestivo “NO!”.

La scimmia leader delle altre scimmie, tramite la funzione adamica delle parole, decide di imporsi anche sugli umani attraverso un’espressione che possa in qualche modo “dominarli”. Il suo “NO!”, oltre ad avere una forte carica semantica, è segno anche di una forte scelta, di un rifiuto, di imposizione di coscienza di se stesso. L’importanza della parola sta proprio nella carica emotiva e significante. Il MO.CAP permette a Serkis di disumanizzarsi e di ritornare umano in 110 minuti di film.

Proprio come Carmelo Bene definì il suo modo di essere attore teatrale come qualcuno che non deve imitare ma incarnare, il MO.CAP aiuta ad attuare questa idea, l’attore che indossa le tute “digitalizzanti” deve lavorare sui significanti, non sul significato.

La recitazione deve porsi ad essenza, eliminando il superfluo.


 Catturare il Movimento per superare le codificazioni

Il MO.CAP, come lo intende Serkis, non tende a snaturare il ruolo dell’attore ma lo ri-nobilita, proprio come analogamente avvenne durante la svolta connotativa dell’attore teatrale nell’Ottocento, dove scomparve l’idea di attore “figlio d’arte esclusivo” ma nacque la possibilità di formare il professionista da zero attraverso approcci accademici e basandosi su trattatistiche per attori.

L’attore divenne un punto di riferimento nella vita culturale dell’epoca e la necessità di costituire attori di professione da persone totalmente a digiuno dal teatro, aprì le porte alle strategie di codificazione di un codice cinesico. Attraverso l’elaborazione di pose, gesti e movimenti, l’attore sarebbe stato in grado di studiare al meglio e riprodurre un sistema di comunicazione che fosse basato sul percorso ambivalente dell’interiorità dell’attore e lo sguardo dello spettatore.

Se nell’Ottocento si puntò sulla costituzione di un codice cinesico giustificabile culturalmente, con l’avvento del MO.CAP la connotazione diviene ancor più intrinseca nell’uomo perché il codice di riferimento è strettamente umano. Ne è l’esempio perfetto il Serkis che interpreta e incarna personaggi scimmieschi, emblemi del denominatore comune dell’origine dell’umanità.

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Il codice condiviso con lo spettatore è già definito naturalmente, quindi il MO.CAP non deve sforzarsi nel costruire standard riconoscibili, ma deve sempre migliorare la possibilità di rendersi invisibile, di aprire un grosso cratere che lasci sfuggire sempre più liberamente l’espressione performativa dell’attore che sarà così riconosciuta e assimilata dalla più radicata conoscenza interumana.

Quando si parla di MO.CAP come potenziatore della recitazione cinematografica va inteso come superamento di determinati stili di performance che possono appartenere all’attore a seconda del suo percorso d’istruzione o dalla sua eredità acquisita in altri contesti recitativi oltre-cinema, quindi un’assenza dell’attore stesso a favore della sua umanità che diviene mezzo conoscitivo ed empatico. Serkis che interpreta King Kong non è un attore che simula le movenze di una scimmia di dieci metri, ma è una scimmia che contiene l’umanità di un attore britannico.

Possiamo dire che il MO. CAP permette la nascita di un nuovo attore che non è parassita di uno standard tradizionale ma diventa “Motus Machina” al servizio del non umano per umanizzarlo.

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In supporto a questa tesi, l’autore di videogiochi David Cage, compara la recitazione in MO.CAP con il “senso di libertà” che l’attore teatrale raggiunge nel – da lui definito – “teatro minimale”, dove il palcoscenico è uno spazio vuoto dove esso è riempito mediante un atto di immaginazione e dal momento che l’attore MO.CAP recita (nella maggior parte dei casi) in un ambiente asettico che permetta ai dispositivi tecnologici di catturare al meglio il suo movimento, l’attore non deve far più riferimento alla sua figura fisica in una scenografia pre-costituita, ma solamente a se stesso in relazione all’immaginario fantastico che andrà a umanizzare.


Conclusioni. Mostri, fondatori d’identità

Nel panorama cinematografico novecentesco, la figura del mostro venne identificata sempre più a stretto contatto con quella dell’uomo, soprattutto in relazione alla concezione del mostro in ambiti oltre l’intrattenimento.

L’emergente psicologia nel 900’ cercò di mostrare come l’uomo venga dominato da due istinti primordiali (Eros e Thanatos), l’istinto d’amore e l’istinto di morte, protagonisti della corrente istintivista di cui Freud fu il maggiore esponente. Le pulsioni legate alla sessualità vengono bilanciate da quello che Fromm definì come istinto all’aggressività, che necessita costantemente di trovar sfogo nella vita sociale. Tale istinto, nell’uomo primitivo, era necessario per l’aggregazione (difendersi da una minaccia concreta comune) ma nel corso dell’evoluzione della specie, nelle società moderne e civilizzate, esso ha cambiato i suoi connotati divenendo l’istinto alla creazione di un capro espiatorio.

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La figura dell’inumano rientrò spesso nell’immaginario rappresentativo della trasfigurazione di pulsioni, se pensiamo a “L’incubo” di Füssli per quanto riguarda l’arte moderna che rifletteva sull’inconscio, mentre sull’aspetto conscio dell’essere umano, basti pensare ai “Freak” circensi dell’America di inizio XX secolo, dove le “aberrazioni” umane venivano viste dagli spettatori come qualcosa da tenere lontano. Il pubblico dei Freak Show cercava l’evasione della realtà come divertimento o forma di redenzione.

Il mostro è divenuto una trasposizione interna dell’uomo da screditare e allontanare. La studiosa di cinema Barbara Creed definì il mostro nel cinema come “colui che viola i confini e minaccia la stabilità dell’ordinato”. Secondo lei i generi come horror e monster movie servono alla società come salvaguardia dei confini e dei tabù.

Negli anni 50’ e 60’ del Novecento furono prodotte numerose pellicole di mostri, e secondo la teorica del cinema Tamara Sandrin, quei film fantascientifici sono l’esempio perfetto di come il cinema cercava di far mettere in relazione l’uomo (spettatore) e le sue paure (abbietti): “Numerosi film prodotti in quel periodo possono essere considerati paradigmatici della società dell’epoca e dell’atteggiamento dell’uomo nei confronti della diversità: tutti sembrano ribadire il fondamentale concetto antropocentrico del – noi distruggiamo ciò che non riusciamo a  capire, ciò che è diverso da noi e che ci fa paura”.

Il 2017 è stato l’anno del ritorno dei mostri nelle sale cinematografiche: dalla nascita dell’universo reboot dei mostri della Universal (Dark Universe) fino al ritorno dei Kaiju orientali, ma quanti di questi potranno creare un vero legame con lo spettatore? Quante di queste pellicole non saranno e non sono state solamente frutto dell’accecamento hollywoodiano da intrattenimento fine a se stesso?

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Il mostro funziona al cinema quando esso può essere lo specchio del nostro “cuore di tenebra”, quando esso (o meglio “egli”) può essere il “cavaliere oscuro” delle nostre più arcaiche pulsioni. Il MO.CAP punta a questo, esso permette la creazione di legami diretti con noi, scientificamente spiegabili (neuroni specchio) e metaforicamente analizzabili (eterno scontro tra uomo e natura ineluttabile).

Il MO.CAP non limita le doti attoriali e non costituisce un’alternativa alla recitazione, al contrario ne esalta i dettagli (grazie ai sensori che riproducono ogni minimo movimento del corpo) e conferisce a essi nuova linfa, grazie alla possibilità di “umanizzare” tanti elementi cinematografici che grazie a questa tecnologia si avvicinano metaforicamente sempre più a noi e ci guidano in emozioni strategiche e sempre più efficaci.

Il MO.CAP rimane una tecnica costosissima e sempre in miglioramento, ma esempi analoghi e di bassa portata li si possono già trovare in applicazioni gratuite per il mobile, dove grazie ai sensori delle camere dei telefoni cellulari, i software adattano sul tuo viso degli elementi che (dalle orecchie da gattino al naso da maialino) agiscono essenzialmente sui lineamenti e sulle movenze dell’individuo che ci gioca. Queste applicazioni stanno spopolando sia tra i più piccoli che tra gli adulti, che trovano interessante e divertente vedere il proprio “essere” trasposto in entità fantasiose.

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In qualche modo il MO.CAP e tutte le sue derivazioni, soddisfano dei desideri secondari delle persone che cercano sempre di più di ritornare a vivere dei rapporti empatici che forse, nell’epoca del bombardamento immaginale effimero e della riproducibilità dell’arte, si sono un po’ persi.

Il MO.CAP agendo sull’inumano e donandogli identità umana si fa gestore di relazioni che senza la possibilità dell’utilizzo di questa tecnologia rimarrebbero sterili e senza possibilità di connessione. Il mostro in quanto tale, nel mondo dell’intrattenimento audiovisivo è sempre stato utilizzato come costruttore d’identità, soprattutto prendendo in considerazione i bambini che naturalmente sono coloro che non hanno ancora individuato una propria identità e allora creano connessioni con coloro che non hanno forma e non ce l’avranno mai. L’esempio perfetto è il caso di “E.T L’extraterrestre”, dove Spielberg ci mostra il bambino Eliott che entra in viscerale (magica) sintonia con l’alieno spaesato abbandonato sulla terra.

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Quito Barajas, insegnante presso il Southwestern College, ci spiega questo tipo di relazione identitaria attraverso l’esempio del popolare tv show Stranger Things (essenzialmente remake diversificato di E.T.), dove troviamo la bambina Eleven, scappata da un laboratorio di sperimentazione neuronale, che non sa nulla di se stessa, è vestita solo di un camice, ha i capelli rasati e come unico riferimento identitario ha un numero tatuato su un braccio (11). Eleven si sente un mostro e lo dice anche in un episodio: ”Sono un Mostro”, perché si sente priva di forma e tutti coloro che interagiscono con lei si chiedono chi sia. Nello sviluppo fantascientifico della storia, Eleven capirà di essere interconnessa con un mostro che vive in una realtà parallela (il Demogorgone), che ucciderà nel finale di stagione per trovare il suo vero posto nel mondo.

Il tema del bambino che ricerca la propria identità interconnettendosi con chi non ce l’ha, può essere superato grazie al MO.CAP o in un secondo luogo, rafforzato. Nel primo caso, attribuendo un’identità umana al mostro si perde il legame tra i “non formati”, e nel secondo caso l’attore può disumanizzarsi al tal punto da servire un collegamento empatico per lo spettatore pur rimanendo lontano da lui, pur rimanendo mostro.

Il veloce progredire della tecnologia del Motion Capture, porterà i mostri a divenire sempre più umani e molto probabilmente a far scomparire gli archetipi da “Prodigio”, lasciando sempre più spazio a uomini-spettatori che avranno sempre più chiaro il loro ruolo nella visione e assimilando con velocità la possibilità di essere in contatto empatico con qualcosa che strutturalmente è diverso da loro.

Non sono stati gli aerei ad uccidere la bestia, è stata la bella ad uccidere la bestia.

Robert Armstrong

2 commenti Aggiungi il tuo

  1. The Butcher ha detto:

    Ho letto l’articolo con molto interesse e ho scoperto anche delle particolarità su questa tecnologia di cui non ero al conrrente. E’ una tecnologia affascinate che dà la possibilità all’attore di dare spressività alla creatura. L’esempio più grande lo si trova appunto con Serkis, che riesce a dare una caratterizzazione alle creature attraverso la sua mimica facciale e alla sua bravura.

  2. Celia ha detto:

    Grande <3

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