Le MMA nella gabbia del risentimento.
di Alessandro Sivieri
“Ma guardati: sì, avevo ragione, mi piacevi di più quando bevevi. Almeno allora avevi le palle.”
Quando sali sul ring non stai sfidando solo l’avversario, ma te stesso. L’obiettivo è superare le esitazioni, dimostrare che ce la puoi fare o puoi perlomeno provarci, un po’ come il Rocky di Sylvester Stallone, pronto a sfidare Apollo Creed per convincersi di non essere soltanto un bullo di periferia. E poi c’è chi combatte per disperazione o perché non riesce a comunicare col prossimo in nessun altro modo. Non è chiaro cosa provi nell’indossare i guantoni, ma è accerchiato dai demoni ed ecco che inizia a esprimersi con i pugni, a vomitare sul prossimo tutto quello che la vita gli ha fatto ingoiare.
Warrior è proprio questo, parla di rancore e dei fantasmi del passato. Un nucleo familiare disfunzionale e frammentato si riunisce, dopo diversi lustri, nella gabbia delle MMA, quelle arti marziali miste che coniugano la feroce sportività del pugilato con la spettacolarità (e talvolta il modo di imbastire le storyline) tipica del wrestling professionistico. Gavin O’Connor (The Accountant, The Way Back) usa pugni e calci per raccontare il conflitto tra un padre e due figli, sfruttando con sapienza un ristretto set di attori per mandarci emotivamente al tappeto.
Tom Hardy, in una delle sue prove migliori, è Tommy, un ex-marine che ha disertato dalla sua unità dopo un salvataggio eroico e che si presenta a casa dell’anziano padre, Paddy Conlon (Nick Nolte). I due non si vedevano da ben quattordici anni a causa di un lutto e di problemi di alcolismo: per sottrarsi alle angherie del genitore ubriacone, Tommy era scappato con la madre malata, spirata in seguito tra le sue braccia. Sebbene non dimostri alcun moto affettivo, Tommy è tornato dal padre, il quale vive nel rimorso, frequenta la chiesa locale e non beve liquori da mille giorni. Povero in canna, il figlio chiede a uno stupefatto Paddy di allenarlo per vincere il premio in denaro di un importante torneo di MMA. Tommy era infatti un lottatore promettente e il padre accetta di fargli da coach come ai vecchi tempi, speranzoso di ricucire i rapporti.
Il binomio conflittuale allievo/maestro alla Million Dollar Baby vede l’ingresso di un terzo elemento, che sposta l’asse narrativo e che si rivela infine risolutivo: il fratello maggiore di Tommy, Brendan Conlon. Interpretato da Joel Edgerton, si ritaglia una grossa fetta di minutaggio e risulta il personaggio con cui viene più facile empatizzare. Pur essendo il primogenito, Brendan non era un combattente abile quanto Tommy ed è sempre vissuto all’ombra di quest’ultimo. Innamorato della futura moglie Tess (Jennifer Morrison), Brendan non sapeva nulla della malattia materna e non aveva partecipato alla fuga insieme al fratellino. Tornato negli Stati Uniti, Tommy taccia Brendan di vigliaccheria; Brendan accusa invece Tommy di avergli nascosto lo stato di salute della madre, alla quale non ha potuto dire addio. La loro partecipazione al torneo è un confronto corporeo e morale, suggellato dal risentimento comune verso il padre.
Se Tommy vuole devolvere il premio alla famiglia di un suo ex-commilitone, Brendan ne ha bisogno per pagare le costosissime cure della figlia. L’uomo, insegnante di fisica, è costretto ad arrotondare lo stipendio grazie a incontri clandestini. La facciata del sogno americano decade quando questo Cinderella Man viene sospeso dalla scuola per il suo “lavoretto notturno” e si scontra con la moglie preoccupata. Il torneo “Sparta” diventa l’unica possibilità di non perdere la casa e i servizi sanitari, ma Brendan si ritrova a dover affrontare proprio il fratello perduto. Il padre, preso tra due fuochi, assiste anche agli incontri di Brendan e lo incoraggia, ma resta la fondamentale domanda: il trio riuscirà a sotterrare l’ascia di guerra?
Le scene di combattimento non sono il focus, ma servono a definire lo stato mentale dei personaggi, che una volta messi “nella gabbia” si esprimono con un body language più chiaro di un cartellone 10 di metri. L’approccio alla lotta ci illustra le differenze tra i due fratelli: Tommy è diretto e selvaggio, capace di mandare a terra un professionista in un solo colpo e abbandonare immediatamente l’arena, perché la gloria non gli interessa. Il suo repertorio di mosse ne fa uno striker pericoloso. Per quanto imponente, Hardy non guarda in faccia gli altri finché non è costretto, lasciando emergere una personalità fragile. Brendan, etichettato fin dall’inizio come sfavorito, è una persona mite e insicura, ma mossa da una forte motivazione. Subisce una pletora di colpi da avversari più prestanti, eppure riesce a sottometterli e costringerli alla resa. La sua ricchezza tecnica lo rende un grappler che trova la soluzione nella lotta a terra.
“Stop the ship!”
Figura paterna ai margini è un Nick Nolte strepitoso, sopraffatto dalla vergogna e dai segni di un passato che non può cancellare. Voce rauca, sguardo addolorato, Paddy elemosina l’attenzione dei figli e cerca di essere la figura che non è mai stato, giocandosi un round fuori tempo massimo. Umiliato da Tommy, si abbandona di nuovo alla bottiglia e ci regala una delle migliori scene padre-figlio mai viste, dove per un attimo emerge l’orco manesco di una volta, subito ridotto a un vecchio sconfitto, che ascolta l’audiolibro di Moby Dick e che sta espiando un eterno peccato. Altro supporting character di prima classe è Frank Grillo, il futuro Crossbones dell’Universo Marvel: allenatore non convenzionale e dalla battuta pronta, istruisce Brendan al ritmo di Beethoven.
O’Connor si serve di una camera a mano tremolante e di zoomate a schiaffo per animare degli scontri viscerali. Spesso l’inquadratura segue le azioni dietro la rete metallica, facendoci sentire come uno spettatore impotente mentre Brendan prende cazzotti atomici da un Kurt Angle in versione sovietica. Giunge senza sterzate la sfida finale, la più intima, dove i fratelli si scambiano legnate a profusione. Calci e prese diventano un linguaggio carnale che traduce la rabbia, il senso di colpa, la necessità di scuotere l’altro. L’escalation sentimentale ci porta a un epilogo dove conta il coraggio di essere perdenti. Il perdono può far male e si trova in mezzo al sudore e al sangue, ma una volta conquistato ci lascia liberi di uscire dalla gabbia, accompagnati dalle note di About Today. Uno scambio di sguardi basta a dirci che tutto è compiuto: il futuro non è certo, ma tutto ciò che ha portato a quel momento ha acquisito un senso.
Più fluido di The Fighter nel miscelare la competizione sportiva al dramma di famiglia, Warrior non compie scelte stilistiche rivoluzionarie e si mantiene concentrato su un classico duello (in realtà un triello) scandito da tappe preparatorie, anche se i flashback bellici di Tommy e i cori dei marines deviano in parte dalla sobrietà dello script. Eppure dopo mille giorni lontano dal bicchiere, uno sgarro può capitare. Non importa quanto sia impietrito il vostro cuore: la combinazione di pathos e lacrime virili garantisce un KO tecnico.