Recensione del nuovo film di Edgar Wright con Anya Taylor-Joy presentato a Venezia 78.
di Carlo Neviani

È successo di nuovo. Dopo il riuscito Baby Driver, torna al grande schermo il regista della trilogia del cornetto, AKA Edgar Wright, con un film altrettanto spumeggiante. Presentato fuori concorso alla 78° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il 4 settembre, Ultima Notte a Soho è quel genere di film capace di mettere d’accordo 20 persone davanti a un televisore per una serata: adulti e giovani, maschi e femmine, cinefili e non, si troveranno coinvolti dalla pellicola londinese.

Ce ne fossero di registi come Wright, capaci di mescolare così tanti elementi cinematografici in un colpo solo, con il fine di divertire. Last Night in Soho inizia come un film “innocuo”: la protagonista Eloise (ben interpretata da Thomasin McKenzie) è una giovane di provincia aspirante stilista, con un’accesa passione per la Swinging London, che si trasferisce nel cuore di Londra per studiare in una prestigiosa scuola di moda. Come ogni esperienza da studente fuori sede che si rispetti, le aspirazioni di Eloise si trasformano presto in un thriller psicologico, con un pizzico di psichedelia… la protagonista si trova a disagio con gli eccessi della metropoli moderna e trova rifugio in sogni sulla Londra anni ’60 da lei mitizzata. Lì ha una connessione con l’aspirante cantante Sandy (la giovane star Anya Taylor-Joy), e diventando il suo doppio, in un bellissimo e simbolico gioco di specchi, vive in prima persona prima i successi e le bellezze di un’epoca passata, poi le violenze, abusi sessuali, omicidi. E il sogno diventa incubo.

È sufficiente la trama per capire quanta “carne al fuoco” abbia messo Edgar Wright in questo film. C’è psicologia teen, c’è il tema della violenza di genere, del doppio, c’è il viaggio nel tempo, c’è il musical, il thriller e l’horror, c’è la moda, la storia, c’è commedia, dramma e storia d’amore. Strumenti orchestrati dal direttore con un ritmo veloce, mai noioso, come se tutto il film fosse un videoclip di un brano rock’n’roll (un po’ come in Baby Driver). Spicca, su tutta la messa in scena, la seconda grande protagonista del film, Londra, la cui atmosfera è ricostruita in modo eccezionale: le musiche, i costumi, i poster dei film, le luci dei locali ci fanno viaggiare con la mente insieme a Eloise, al punto che, tra le note di Downtown di Petula Clark, lo spettatore riesce quasi a sentire gli odori insieme a suono e immagini così evocative. Il merito è anche e soprattutto dello scenografo Marcus Rowland, a cui è stato consegnato il premio Campari Passion for Film proprio a Venezia. Non è un caso che Wright collabori da oltre 20 anni con Rowland e lo ritenga una bussola creativa per ogni suo film.

Ultima Notte a Soho potrebbe essere il miglior film di Edgar Wright? Il potenziale c’è tutto, ma citando la nonna di Eloise che commenta Londra, forse “it’s a bit too much”. Nel voler essere tante, troppe cose, alla fine non risulta convincente al 100%. Il gioco postmoderno con i generi cinematografici, che parte dal classico per poi “fregare lo spettatore” catapultandolo in generi diversi, finisce piuttosto per fregare il film stesso, rendendolo leggermente prevedibile nella seconda parte quando abbraccia l’horror a sfavore del resto. Quello che è certo, è che Wright ci ha regalato una pellicola che ci ricorda tutto il potenziale dell’esperienza cinematografica: un trip (a tratti onirico e psichedelico come Suspiria di Argento, sicuramente un riferimento per la fotografia firmata da Chung Chung-hoon) che ci fa viaggiare nel tempo, nello spazio, provare sentimenti universali e, soprattutto, divertire.
Per una ulteriore analisi vi rimandiamo alla videorecensione del nostro Matteo!