Ethan Hawke scrittore maledetto con una famiglia inquietante.
di Alessandro Sivieri
In una notte senza sonno, durante il giro rituale su una nota piattaforma di streaming, ho trovato un titolo in grado di stuzzicare la mia fame di horror. Il regista Scott Derrickson, dopo aver diretto un bel dramma chiamato L’esorcismo di Emily Rose e un pessimo remake di Ultimatum alla Terra, è entrato nello squadrone della Disney per dirigere Doctor Strange. Sebbene la trama di quest’ultimo non si discosti minimamente dal classico cammino dell’eroe, ricordo con piacere il casting azzeccato e l’impostazione visiva: le dimensioni multiple in cui si muove lo Stregone Supremo, caleidoscopiche e allucinate, hanno permesso alla pellicola di distinguersi nel marasma dei cinecomic. Nelle note di produzione leggo Jason Blum e capisco di avere un buon 50% di possibilità di incappare in una minestra riscaldata, ma decido di iniziare, immergendomi nelle sinistre avventure di Ellison Oswalt, scrittore dal sapore kinghiano interpretato da Ethan Hawke.
Il look dell’attore, manco a farlo apposta, ricorda alla lontana lo Strange di Cumberbatch, ma qui non parliamo di un genio della chirurgia, bensì di un esploratore del macabro, un autore in declino che in passato ha raggiunto la fama grazie a inchieste e romanzi sui serial killer. Sperando di uscire dalla crisi creativa, si trasferisce con moglie e figli a King County, in una casa dove un anno prima è avvenuta una strage. Gli inquilini precedenti (un’intera famiglia) vennero impiccati in giardino, salvo una ragazzina, presumibilmente rapita. Per partorire il suo capolavoro, Oswalt deve far luce sulla vicenda, spingendosi oltre gli enigmi irrisolti della polizia. L’obiettivo è identificare l’assassino e scoprire la sorte della bambina scomparsa.
Ciò che poteva rappresentare l’occasione di una rinascita a livello lavorativo si trasforma presto in un incubo: Oswalt e la sua famiglia sono malvisti dagli abitanti del luogo e da gran parte della polizia, spesso rappresentata nei romanzi dell’autore come inetta. La moglie e i figli dell’uomo sono scettici sul trasloco e si profila nell’aria una crisi coniugale. Rovistando nella soffitta in cerca di indizi, Oswalt scopre una scatola contenente dei filmini amatoriali in super8, che mostrano tutte le persone trucidate dall’assassino nell’arco di 40 anni. Lentamente lo scrittore scopre dei dettagli ignoti alla polizia e la caccia letteraria al killer diventa un’ossessione, una storia di paranoia dove Oswalt non esce più di casa, ha problemi di alcolismo e percepisce strane presenze intorno a lui. Oltre alla moglie preoccupata, non sono certamente d’aiuto i figli: una dipinge scene macabre sui muri, l’altro ha degli attacchi di terrore notturno che servono a costruire alcune delle scene più inquietanti del film. Presto le forze sconosciute, che si svelano attraverso i filmini, prenderanno iniziative più concrete, e Oswalt si accorgerà di essere coinvolto in un gioco al gatto col topo dove tutti i suoi cari sono in grave pericolo.
Derrickson confeziona una storia intima che, pur ricalcando alcuni cliché, regala una genuina dose di tensione. Lo scrittore di Hawke, assorbito dalle sue fantasie quanto un Johnny Depp in The Secret Window, sembra disposto a tutto pur di risolvere il caso e tornare sulla scena con un nuovo libro. Oltre a mentire a se stesso, non accettando il proprio vuoto creativo, distrugge la sua vita matrimoniale e assiste con un misto di fascino e terrore al manifestarsi di poteri oscuri, misteriosamente legati agli omicidi e alle vecchie pellicole. È proprio verso la parte centrale che Sinister inizia a mostrare il fianco ai tipici horror da casa infestata: man mano che la soluzione dell’enigma si avvicina, la scrittura include elementi paranormali che in verità non sarebbero necessari. La storia avrebbe potuto benissimo stare in piedi come semplice thriller, in un duello psicologico (e infine fisico) tra scrittore e assassino, ma i fantasmi ci riportano paradossalmente con i piedi per terra. Le vaghe allusioni a demoni antichi e a sette omicide sacrificano originalità, avvicinando i macabri filmini in super8 alla videocassetta di The Ring. A tenere in piedi l’opera, che rimane piuttosto godibile, troviamo delle sequenze intense, una regia sicura di sé e un finale che ha il coraggio di essere cinico e autoconclusivo, nonostante il mistero rimanga in sospeso per un sequel. Che puntualmente arriverà, insieme ai bambini indemoniati che, chissà perché, sanno sempre come procurarsi un’arma e mettere i genitori fuori combattimento.
PS: da piccolo disegnavo cose peggiori della figlia di Oswalt.
PPS: i miei filmini delle vacanze sono ugualmente inquietanti.
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