John Goodman diviso tra dittature aliene e attentati terroristici.
di Alessandro Sivieri
Cosa accadrebbe se gli alieni vincessero? Una domanda dai risvolti sinistri alla quale il regista Rupert Wyatt (L’alba del pianeta delle scimmie) cerca di rispondere con delle scelte narrative interessanti e una messa in scena solida. Noi di Monster Movie abbiamo partecipato all’anteprima nazionale, tenutasi al cinema Arcadia di Melzo, con tanto di fumogeni sparati nei corridoi e set fotografici con maschere antigas. Un marketing efficace che, insieme alla qualità di una pellicola, ha ribaltato le nostre basse aspettative, lasciandoci con molti punti da discutere e qualche trascurabile incertezza. Eccoci dunque alla recensione in esclusiva di quest’opera che amalgama il genere post-apocalittico, il fantahorror e il thriller politico. Lo fa con un prologo che, in seguito a un disperato tentativo di fuga, aggiorna rapidamente lo spettatore sulla situazione attuale: gli alieni sono atterrati sul nostro pianeta e, grazie alla resa incondizionata degli organismi governativi, ne hanno preso il controllo. È l’inizio di una dittatura che aggiorna alle odierne premesse socio-storiche il romanzo distopico per eccellenza, ovvero 1984 di George Orwell.
Non è chiaro perché i potenti della Terra si siano arresi agli invasori extraterrestri. Può darsi che abbiamo semplicemente preso atto della superiorità bellica e tecnologica degli alieni o che questi ultimi abbiano sferrato un unico attacco dimostrativo, in stile Hiroshima e Nagasaki. Una mossa vincente è omettere le battaglie campali per catapultarci in uno scenario dove la nostra civiltà è in ostaggio. È come se i cattivi di Independence Day o Battle: Los Angeles avessero trionfato e i moti insurrezionalisti debbano ancora conquistare l’opinione pubblica. In questo modo esploriamo una fase di transizione sovente ignorata dai blockbuster fantascientifici. Le nazioni di tutto il mondo, inclusi gli Stati Uniti, sono state colonizzate e il popolo si è rassegnato al soffocante dominio straniero. Anche se compaiono mecha, astronavi e mostri, l’impressione è quella di un padrone senza volto ma dotato di mille occhi. La libertà è un lontano ricordo e non esistono più luoghi o mezzi di comunicazione sicuri.
Viene concretizzato uno degli incubi del patriottismo d’oltreoceano: non solo il territorio americano è stato invaso, ma l’esercito ha preferito l’armistizio alla lotta. I nuovi padroni si vedono raramente e intervengono solo in casi di urgenza, deputando il controllo delle masse agli stessi burocrati che governavano prima, e che per mantenere una parvenza di benessere hanno scelto di collaborare. Nel frattempo, dei movimenti clandestini organizzano attentati simbolici per dimostrare che il nemico non è invincibile. L’intenzione del film è mostrarci più punti di vista, dai cani da guardia del regime ai rivoluzionari in incognito. Se all’inizio del racconto conosciamo il giovane Gabriel Drummond (Ashton Sanders), orfano che spera di fuggire dalla città di Chicago per ricominciare da capo, scopriamo in fretta che nel film non c’è un vero e proprio protagonista.
L’azione si sposta alternativamente sul poliziotto Mulligan (John Goodman), ex-collega del defunto padre di Gabriel, e su Rafe (Jonathan Majors), il maggiore dei fratelli Drummond e il paladino della ribellione. L’assenza di un personaggio focale e i voli pindarici del montaggio impediscono allo spettatore di empatizzare con gli interpreti principali, ma rendono l’intreccio sostanzialmente imprevedibile. Il sentimento prevalente è la paranoia. Qualunque cosa può accadere e tutti sono in pericolo. Le questioni etiche e l’emotività delle masse vengono messe da parte per raccontare complotti sovversivi e rastrellamenti della polizia, con un taglio quasi documentaristico che include immagini delle telecamere di sorveglianza e notiziari. Come un epigono di Paul Greengrass, Wyatt impiega massicciamente la camera a mano, accentuando la sensazione di clandestinità degli eventi. I membri della resistenza (chiamata “Fenice“) si incontrano in edifici abbandonati e vicoli angusti per progettare attentati, giurando di colpire duramente gli extraterrestri che gli stanno consumando il pianeta.
Questi ultimi governano le metropoli del mondo tramite i loro Legislatori e hanno costruito delle basi sotterranee in determinate zone, dove è vietato l’accesso agli umani. Sfruttando politici e personaggi televisivi come burattini, controllano la cittadinanza grazie a slogan e innesti sottocutanei, evitando il più possibile di mostrarsi in pubblico. I sovversivi, affini ai membri della Resistenza francese o della Carboneria, comunicano tra loro con tecniche obsolete e fuggono dalle retate a opera di poliziotti come Mulligan. Lo sbirro di Goodman è forse il personaggio più completo del film, diviso tra la necessità di proteggere i fratelli Drummond e il lavoro sporco per i dominatori alieni. Vera Farmiga si tiene più in disparte, risultando un incrocio tra una dark lady e l’Oracolo di Matrix. Durante l’ultimo atto il suo ruolo si fa più chiaro.
I nodi fondamentali vengono al pettine, anche se il montaggio confusionario lascia in sospeso il significato di certi passaggi e il ruolo di alcuni personaggi secondari, che vengono introdotti nella prima metà per poi sparire nel nulla. I fautori della rivolta parlano in codice e a volte sembra che sia lo sceneggiatore stesso a farlo con lo spettatore. Dopo tanta pianificazione assistiamo a un attacco allo stadio della città, in stile The Dark Knight Rises. Tale sequenza è carica di tensione, ma non impedisce alla parte centrale della storia di appesantirsi e un’ulteriore limatura avrebbe giovato allo svolgimento. Per nostra gioia sono presenti due scene monster: nella prima la creatura è in CGI, ma l’illuminazione “sporca” e le riprese concitate ne aumentano l’efficacia. La seconda mostra l’arrivo dei Cacciatori, forze speciali aliene con il compito di catturare gli attentatori. La loro realizzazione si basa sui practical effects e vengono introdotti in modo magistrale.
Rupert Wyatt confeziona un prodotto intelligente e dinamico, in grado di farsi perdonare le saltuarie cripticità. C’è una riflessione sociale e soprattutto c’è un punto di vista, dedito a caricare le sequenze di suspense. Certi aspetti degli extraterrestri rimangono nell’ombra e il loro design non fa gridare al miracolo, ma vengono dosati in modo eccellente. Il budget contenuto è stato sfruttato in piena armonia con le ambizioni del film. Si esce dalla sala con un bizzarro sapore di Arrival e dei vari Independence Day, Oblivion e V per Vendetta, dove la componente action viene soppiantata dagli intrecci da spy story dei movimenti clandestini. Proprio per il suo realismo, dove non esistono eroi e ci si sporca le mani da entrambi i lati della barricata, Captive State si pone due spanne sopra i suoi competitor fantascientifici con più milioni a disposizione.
Non perdetevi la nostra reazione in diretta su Facebook, subito dopo l’uscita dal cinema: