La rilettura horror di un archetipo dei cinecomic.
di Alessandro Sivieri
Se Superman impazzisse e decidesse di sterminare l’umanità, potremmo fare ben poco per fermarlo e di conseguenza saremmo fottuti. Questo è il presupposto su cui si basano le ossessioni di Bruce Wayne in Batman vs Superman: il figlio di Krypton è un alieno semi-invincibile, un’arma di distruzione di massa vivente che ha il potenziale per ridurci in polvere, cosa che porta il Cavaliere Oscuro (Ben Affleck) a ideare un piano per fermarlo. Con James Gunn alla produzione, Brightburn rielabora il concetto di formazione del supereroe e lo declina in salsa orrorifica, agganciandosi al filone dei ragazzini posseduti (vedasi il recente The Prodigy).
Ne esce un what if che ricalca pedissequamente l’infanzia di Clark Kent, eroe tutto d’un pezzo cresciuto a Smallville, per ipotizzarne la natura malvagia. Le origini del giovane Brandon Brayer (Jackson A. Dunn) sono infatti una trasposizione di tale immaginario: una coppia che vive in una comunità rurale del Kansas, Tori e Kyle (Elizabeth Banks e David Denman) cercano inutilmente di avere un figlio, quando poco lontano dalla loro proprietà precipita una navicella spaziale. Essa contiene un neonato esteticamente uguale a un bambino terrestre, che i due decidono di adottare, celandone la vera identità.
Con l’approccio di Brandon alla pubertà e il risveglio dei suoi poteri, la pellicola di David Yarovesky abbandona i toni alla Man of Steel in favore di una logica da B-movie. Il ragazzo, da sempre timido e intelligente, sviluppa un’indole aggressiva e una serie di qualità sovrumane, tra cui una forza smisurata, la capacità di volare e la famosa vista calorifica. Come da copione ha episodi di sonnambulismo che lo attirano verso la navicella sepolta (simile alle capsule dei Saiyan di Dragon Ball, anch’essi inviati su altri pianeti in tenera età per diventare conquistatori) e borbotta strane parole nel sonno. A fronte della sua violenza crescente, i genitori tentano di contenerlo, si colpevolizzano e non riescono a dirgli la verità sul suo passato. Se il padre pragmatico reagisce per primo ai segnali d’allarme (cercando di accoppare Brandon col fucile che non voleva regalargli), la madre Tori si divide tra gli attacchi di panico e l’amore incondizionato da crocerossina, muovendosi solo quando è troppo tardi.
Rispettando le linee guida per l’adozione di uno psicopatico, la coppia di agricoltori allenta la sorveglianza su Brandon con una facilità disarmante, non preoccupandosi delle sue assenze e ascoltando le sue bugie anche mentre ricevono la notizia di un parente trucidato o di una conoscente scomparsa. La psicologia del giovane protagonista resta ugualmente sulla superficie, con la scoperta dei poteri in reazione ai soprusi (Carrie – Lo sguardo di Satana docet) e la nascita di un complesso di superiorità, alimentato dalle voci aliene che gli ordinano di impadronirsi del pianeta. Brandon si costruisce un rudimentale costume e abbandona progressivamente ogni empatia, ma non si spendono ulteriori minuti sul suo background biologico e cognitivo.
Tentando una commistione tra il genere horror e il superhero movie, L’angelo del male mette alla berlina gli stereotipi del secondo servendosi di quelli del primo, ed ecco che l’uso del superpotere diventa una fonte di jump scare, arricchito da corpi dilaniati e case distrutte, senza però creare una sintesi accattivante. L’impersonale regia di Yarovesky non dà sostanza alle due anime del film e i limiti di budget si fanno sentire soprattutto nel rampage finale di Brandon, con la necessità di mettere in scena i suoi poteri scatenati. Manca una reale definizione dei limiti degli stessi e i suoi giochi al gatto col topo vengono allungati per arricchire il bodycount, rinunciando al senso di epicità e alla ricercatezza visiva di un Chronicle.
L’epilogo pessimista è quasi un antipasto dei credits, che includono un notiziario dove si parla di individui simili a Brandon, impersonificazioni negative di Aquaman e Wonder Woman. Siamo a metà tra la parodia della Justice League e la proposta di imbastire un Dark Cinematic Universe, che potrebbe rimanere un easter egg o concretizzarsi in base al volume degli incassi. Giocando con l’iconografia fumettistica, Brightburn offre al pubblico l’ennesimo anticristo prepuberale, sostituendo lo sci-fi al paranormale ma risultando in ultima privo di mordente. Se il Bene ha un’infinità di paladini, anche il Male vuole il suo campione. E nel caso di Brandon, si diverte a stalkerare le compagne di classe e a rosicchiare forchette.
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