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IT: CAPITOLO 2 – Autocitazioni da record

Poster di It capitolo 2

Ritorno a Derry con nostalgia artificiale e contorno di Pennywise.

di Alessandro Sivieri

Si conclude con questo secondo episodio la parabola dell’horror con i maggiori incassi della Storia del cinema. It dell’argentino Andrés Muschietti non ci aveva proprio convinto, ma è riuscito indubbiamente a fare presa sulle masse, sfornando quello che a tutti gli effetti è un blockbuster sull’opera di Stephen King, autore non proprio facile da adattare per l’audiovisivo. Il suo crudele pagliaccio Pennywise, già incarnato da Tim Curry negli anni ’90, è amato dalla cultura popolare per la sua complessità: non è solamente un pagliaccio assassino (anche se predilige quest’ultima forma), ma la rappresentazione di tutto ciò che è malvagio.

Un’entità cosmica che esisteva prima dell’universo stesso e che ha un legame simbiotico con la cittadina di Derry, dove terrorizza le prede – in particolare i bambini – materializzando le loro paure, per poi divorarle. La seconda parte del dittico mantiene buona parte dei difetti della prima, in primis lo spreco di potenziale dell’attore Bill Skarsgård. Il suo Pennywise può contare su un design e un make-up davvero efficaci, ma la produzione tende a ricoprirlo di CGI a buon mercato per esasperarne le facoltà di mutaforma, facendogli aprire in due la faccia e trasfigurandolo in lebbrosi, volpini e altre amenità.

Un peccato, poiché la morfologia del pagliaccio, insieme alla recitazione di Skarsgård, sarebbe già stata sufficiente per spaventare senza l’uso di orpelli grafici. In due specifiche scene, ovvero l’assassinio di una bambina e una visione di Beverly adulta (Jessica Chastain), il giovane interprete ha alzato di parecchio l’asticella di questo villain, che poteva essere dosato in modo più astuto e controllato. Azzeccato è anche il casting dei Perdenti cresciuti, che presentano delle buone dinamiche di gruppo.

James McAvoy si destreggia tra balbuzie e senso di colpa, la Chastain si fa apprezzare come elemento femminile potente e segnato dagli abusi, mentre i comprimari Bill Hader e James Ransone hanno le battute migliori e tengono alto il ritmo senza togliere credibilità ai rispettivi personaggi. Non se la passa altrettanto bene l’ex-obeso Ben (Jay Ryan), coinvolto in una friendzone ventennale e ridotto a bellimbusto. Il vero guaio del film è però un costante riciclo di scenari ed espedienti, la compiaciuta autocitazione di un’opera che vuole ridare in pasto al pubblico ingredienti già digeriti, ovvero il cast giovanile.

Analogamente al predecessore, la parte centrale si divide in avventure solitarie dei protagonisti, che devono confrontarsi con sinistre visioni di Pennywise. Sebbene il Club dei Perdenti lo abbia “contaminato“, in sostanza è rimasto il medesimo antagonista di 27 anni fa. Il confine dei suoi poteri, ancora una volta, viene tracciato con incertezza, poiché a parte le allucinazioni, non è chiaro cosa possa fare o non fare It nel mondo materiale, incluso imbrattare ponti ed evocare autisti zombie che poi scompaiono nel nulla. A sconnettere ulteriormente il tessuto narrativo ci pensano diversi flashback: non tutti aggiungono profondità al vissuto dei protagonisti e la loro aura idilliaca fa assomigliare gli eventi del presente a una terapia di gruppo per ex-amici in crisi di mezza età. Vi sono citazioni abbastanza fedeli al romanzo, tra cui la gigantesca sagoma di legno, il rituale collettivo e l’aggressione alla coppia omosessuale, ma il finale rende pienamente l’idea della difficoltà nell’adattare un libro così sfaccettato e a tratti onirico.

Nessuno si aspettava una riproposizione letterale degli avvenimenti cartacei: sapete, una immensa proiezione mentale tra dimensioni sconosciute e Tartarughe galattiche sarebbe stata difficilmente filmabile, ma le soluzioni scritturali si inceppano in un confronto finale dalla durata ingombrante e dallo scarso fattore thrilling. Pennywise tortura i protagonisti a colpi di artigli affilati e ricordi adolescenziali materializzati nella sua non-dimensione spaziale, mentre questi ultimi decidono di reagire insultandolo a morte. Il povero clown è destinato a fare la fine di un Molliccio qualunque.

Ogni tanto scatta una scintilla di fascino, ma generalmente lo spettatore viene lasciato con una paura stitica, riflesso del carente desiderio della regia nel cercare soluzioni visive meno trash e una maggiore disinvoltura nel raccontare i traumi di questi adulti, senza doverceli riproporre pari pari come in una recita scolastica. Vengono penalizzati perfino gli ambienti, su tutti Derry stessa e le fognature, che non hanno il tempo di farci respirare la loro atmosfera, perché la storia è lesta a rinchiuderci in caverne alla Prometheus o stanze polverose. Ecco che, mentre galleggiavamo in una pozza nera di autoriciclaggio, due ore e mezza sono sembrate sei.

Qui potete trovare la nostra reazione a caldo appena usciti dalla sala!

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