Una breve riflessione post-visione odierna del film ritenuto da molti come il miglior horror della storia.
di Carlo Neviani
“Perché Quarto Potere è così osannato? Tutto sto hype per ‘na palla di vetro?”.
Approcciarsi a una pietra miliare del cinema, vari anni dopo la sua uscita, è sempre qualcosa di molto stimolante. Sicuramente un’esperienza diversa da quelle contestuali all’uscita nelle sale, preziose perché vissute “con un occhio vergine” rispetto al testamento filmico di un’opera. Chi, ad esempio, oggi vede Guerre Stellari del 1977 per la prima volta non sarà mai affascinato quanto lo furono gli spettatori dell’epoca. Non tanto per l’ovvia aura vintage della pellicola, quanto per il forte contenuto, che inevitabilmente ha influenzato centinaia di filmmaker nei decenni successivi. Lo stesso si potrebbe dire di tantissimi altri film considerati capolavori indiscussi, per approcci inediti in narrazione o per tecniche considerate all’avanguardia, che oggi apparirebbero insipidi ai più. Nel caso de L’esorcista di William Friedkin qualcosa forse si è perso nel tempo: la paura.

Qualcosa era scattato nel 1973 all’uscita nei cinema di The Exorcist, tratto dal bestseller di William Peter Blatty. La gente rimaneva traumatizzata, e di conseguenza affascinata dalla pellicola. Polemiche sui media, divieti stringenti, una produzione burrascosa e piena di aneddoti infelici, ma soprattutto lo straordinario successo, sia di critica che di pubblico: un incasso che, tenendo conto del tasso d’inflazione e del prezzo dei biglietti, posiziona il film al nono posto nella storia del cinema, insieme a 10 candidature agli Oscar con 2 premi vinti.
Il celebre Quentin Tarantino racconta, in un’intervista presente in Eli Roth’s History of Horror, che nonostante sua madre gli permettesse di guardare i peggiori film exploitation, alla richiesta di vedere L’esorcista gli fu negato categoricamente. Insomma, era “Come se il diavolo potesse impossessarsi degli spettatori”. Nel 2020, dopo una lunghissima sfilza di titoli direttamente o indirettamente ispirati, la possessione della ragazzina Regan fa meno spavento, quasi tenerezza per chi è abituato a ben altri picchi di terrore. Inoltre, viviamo in un’epoca di poca fede, con una folla sicuramente meno suggestionabile dalla presenza del diavolo. E qui sta il bello…

L’esorcista non è un film horror. È un film che parla del mistero della fede. Parole del regista. La forza, il cuore della storia sta nell’arco narrativo del giovane padre Karras, nel suo scetticismo e razionalità, scosso dalla perdita della madre, che diviene sempre più un percorso spirituale verso un credo saldo. Saldo come quello dell’anziano padre Merrin, interpretato dal recentemente scomparso Max von Sydow, che stando al prologo iniziale, ha familiarità con l’antico demone Pazuzu, ipoteticamente evocato dalla bambina con una tavola Ouija. Il fatto che la cornice da film di genere, funga da allegoria per parlare d’altro, mette The Exorcist sullo stesso piano di horror d’autore recenti: i vari Ari Aster, Robert Eggers, Jordan Peele, Jennifer Kent… sono “saliti a bordo” di un treno già partito anni prima. La maestria di Friedkin si nota anche e soprattuto nella gestione dei tempi eccezionale, che riesce a dare grande credibilità a una graduale discesa negli inferi, che solo nel terzo atto darà luogo al vero e proprio esorcismo di Regan.

L’altro aspetto che fa de L’esorcista un film da vedere e rivedere è la molteplicità delle chiavi di lettura. Al netto delle centinaia di recensioni, saggi, lezioni dedicategli sembrano inesauribili le interpretazioni e le varie sfaccettature nascoste nella pellicola. Questo grazie a una messa in scena tutt’altro che didascalica, a tratti non chiara nel raccontare, volutamente non univoca nelle intenzioni. Friedkin saggiamente se ne è fregato di dare risposte a tutto, lasciando il film “respirare da solo”. Un aspetto che personalmente ho trovato interessante è la metacinematografia presente. I riferimenti alla settima arte sono infatti molteplici: Chris, la madre di Regan, è un’attrice di cinema, il regista del suo ultimo film muore e il tenente Kinderman, che indaga sulla vicenda, non fa altro che parlare di cinema. “Mi piace vedere i film, in compagnia, discuterne, criticarli”.
Le citazioni al microcosmo delle star di Hollywood potrebbe voler sottolineare il periodo storico, non troppo distante dagli omicidi della setta Manson, che avevano scosso in modo indelebile l’industria. Il finale presente nella extended cut, un’aggiunta rispetto alla versione teatrale, chiude con Kinderman che invita l’amico di Karras a vedere Otello al cinema. “L’ho visto” risponde il prete, “Anche tu!” ribatte il tenente. In questo finale alternativo sembra quasi celarsi una consapevolezza postuma del potere del film stesso, che all’epoca fu, e rubo le parole di Joe Dante, “qualcosa di diverso da qualsiasi altra avessi mai visto”. E anche oggi, nel 2020, rimane unico.
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