Recensione del film d’esordio del terzo tentativo di partorire il Dark Universe negli ultimi dieci anni.
di Matteo Berta
The Invisible Man è un gran Sì. Sembra proprio che la Universal, collaborando con la Blumhouse, abbia trovato finalmente la formula giusta per ridare vita all’universo dei mostri più celebre e classico della Storia del cinema (diciamolo a voce bassa però). Jason Blum affida a Leigh Whannell il difficile compito di reinterpretare una figura storica dell’immaginario mostrifero della Universal, e lo fa proprio come tutto ebbe inizio: affidandosi a storie coinvolgenti low budget, con personaggi carismatici.
L’uomo invisibile si mostra in tutta la sua mostruosità, ma non parliamo di aberrazioni o effetti speciali invasivi, infatti la componente effettistica è ridotta all’osso. Parliamo della percezione costante di pericolo che ci percorre la schiena in ogni sequenza. Il mostro non lo vediamo (quasi mai), però ci tiene compagnia per tutto il minutaggio e oltre, dato che non riesco a smettere di fissare il vuoto della mia stanza, nel tentativo di percepire ogni minimo elemento inconsueto.
La strategia vincente di questa pellicola non è stata quella di cambiare completamente il “soggetto” di H.G. Wells (qui l’analisi del classico diretto da James Whale), ma di destrutturarlo. Diciamolo chiaramente, era impossibile trasporre la storia del bendato Jack Griffin in un contesto contemporaneo. Il metodo per realizzare il remake era una delle principali preoccupazioni, non solo per questo progetto, ma anche per quello (mai nato) precedente, dove un tuttofare Johnny Depp avrebbe dovuto subentrare nel ruolo e adattarsi in quel fallimentare, nuovo universo di “dèi e mostri”.
Whannell, che ha anche scritto e prodotto questo nuovo reboot, non ha cercato di attaccarsi ai fantasmi del passato, né ha voluto evitare i rischi per portarsi a casa la pagnotta. Ha semplicemente adattato il personaggio a una forte storia di stampo sociale, dando una nuova non-visibilità al personaggio.
La protagonista di questo film è Cecilia Kass (Elisabeth Moss), una donna vittima di violenze domestiche che in qualche modo cerca di sfuggire ad un marito manesco (interpretato da Oliver Jackson-Cohen). Quest’ultimo sembra volerla perseguitare anche da morto. Già la sinossi ci fa capire come questa storia non vada a parare in un racconto fantascientifico sopra le righe, ma l’essenza del racconto è incastonata in quella che sembra solo una questione di abusi e conseguenti ripercussioni psicologiche e sociali.
L’uomo invisibile di questa storia sta a rappresentare metaforicamente tutti quei “Eh ma se l’è cercata…” o i molto più frequenti “Mi ha promesso che non lo farà più e mi ha detto che mi ama“, perché è questo il problema principale. Sfortunatamente fin troppe questioni familiari simili finiscono nella ricerca un capro espiatorio che non esiste, pur di mantenere un equilibrio dettato dalla paura e dalla mancanza di un appoggio esterno.
Il regista racconta con maestria una storia rischiosa, che se mal interpretata potrebbe gettare fango su una tematica da trattare con i guanti bianchi. Le strategie narrative e visive per mantenere quel “mood” ansiogeno (e non sforare il budget) sono estremamente funzionali, non si ha mai l’impressione che qualcosa avvenga senza una vera giustificazione. Persino la musica di Benjamin Wallfisch, compositore che solitamente non si risparmia nell’utilizzo di “pezzi” che in qualche modo siano protagonisti nelle sequenze, sembra farsi da parte in favore dell’obbiettivo principale.
Amici mostriferi… IL DARK UNIVERSE È RINATO!
Stacco – Un mese dopo – “La Disney ha acquistato la Universal… Tom Holland sarà il nuovo Dracula!!!!”
Ok, ok… abbasso la voce.
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